Rĕcēnsio, onis, f. Multitudinis cujusvis lustratio, sive recognitio. [מפקד miphkádh ספר sephár. ἐξέτασις. Gal. Reueue, examen du conte, & du nombre. Ital. Riuedimento, essamine di genti & nomi. Germ. Das abzehlen, oder besichtigen einer menge: Musterung. Hispan. El alarde. Polon. Liczba okazanich. Vngar. Mustra, meg zamlalas. Angl. A rekening or rehearsing.] ut, Recensio copiarum, sive exercitus. ¶ Interdum accipitur pro censu civium, eorumque facultatum: qui Romae quinto quôque anno à Censoribus fieri solebat. τίμημα. Cic. pro Mil. Qui nympharum aedem incendit, ut memoriam publicae recensionis, tabulis publicis impressam, extingueret.
Rĕcēnsītŭs, a, um, Participium, à verbo antiquo Recensio, sis, quartae conjugationis, ut ait Georgius Valla. Idem significans, quod Recensus. [פקוד pakúdh נספר nispár. ἀπαριθμητείς, καταλεχθείς. Gall. Reueu, conte, nombré. Ital. Riueduto, contato, nominato. Germ. Gezehle, oder abgezehle. Hisp. Remembrado, nombrado. Pol. Przeliczoni. Vng. Meg zamlaltatot, valagottatott. Ang. Rekened, or told.] Sueton. in Jul. Caes. cap. 41: Instituit, ut quotannis in demortuorum locum, ex iis, qui recensiti non essent, subsortitio à Praetore fieret. Claud. in Eutrop. l. 2: Prisca recensitis evolvite secula fastis. Rĕcēnsŭs, a, um. Particip. Recognitus [פקוד pakúdh נספר nispár. ἀπαριθμητείς, καταλεχθείς. Gall. Reueu, conte, nombré. Ital. Reueduto, contato, nominato. Germ. Wider abgezehlet. Hisp. Remembrado, nombrado. Pol. Odliczoni. Vng. Meg zamlaltatot, rostaltatott. Ang. Reckened or teld.] Sueton. in Vespas. cap. 9. Amplissimos ordines, & exhaustos caede varia, & contaminatos veteri negligentia, purgavit, supplevitque recenso Senatu, & equite; submotis indignissimis, & honestissimo quoque Italicorum ac provincialium allecto.
Calepinus, Dictionarium undecim linguarum, Basileae 1598
| Mostre: • Jews in WWI. Vienna, Jewish Museum • Armeni in Ungheria • La fine della mostra armena • Imogen Cunningham’s passport • Don – A tragedy and its afterlives • Life is beautiful. Vladimir Vorobev’s photo exhibition (es) • Before the storm. The Paris World Exposition of 1937 (fr) • Moscow, Mayakovsky memorial museum (ru) • The Art Nouveau in Szabadka • Political allegory of Europe, 1791. Moscow, Historical Museum • Moscow, museums in the former Red October factory • Captain Ostapenko in the Memento Park • On the 60th birthday of Comrade Rákosi • Viktor Akhlomov’s photo exhibition in Moscow • The history of the Hungarian photography in London (es) • Moscow, 1900-1960. Photo exhibition • The Lithuanian school • Black people in the zoo • The museum of censorship • Flamenco exhibition, Barcelona • History of the Hungarian railways, Szentendre (es) • Exhibition of medieval bicycles by Boris Indrikov (ru) • Max von Oppenheim’s Tell Halaf Museum • Socialist realist auction in the Pintér galery, Budapest • Menachem Kipnis fotói Krakkóban (es) • Kimono exhibition in St.-Petersburg • The wonders of Egypt • St. John’s statue in Kalocsa • The musketeer bear in the Ambras cabinet of curiosity • Escalas photo exhibition in Mallorca • Pharmacy history of Kőbánya • Day of the Book • Bernard Plossu on Josef Sudek (es) • Josef Sudek in Madrid (es) • Aurel Stein exhibition at the Academy of Budapest • Dogs in the Dahlem Museum’s precolumbian exhibition • Rodin’s statues on Palma’s promenade • Tibetan treasures in the Dahlem Museum • The Dahlem museum, Berlin |
giovedì 25 luglio 2013
Reueduto, contato, nominato
martedì 23 luglio 2013
Lontano dall’Ararat
La mostra non si propone di essere onnicomprensivo. Solo ragruppa attorno alcuni temi centrali un gran numero di oggetti d’arte degli armeni ungheresi, di cui la maggioranza sono ora presentati per la prima volta in una mostra pubblica. I temi sono introdotti da brevi descrizioni, e anche la giustapposizione stessa degli oggetti suggerisce un filo storico e tematico, ma – e questo l’unica, ma grave critica –, appunto l’oscurità di questa storia e il carattere pioniero della mostra avrebbe richiesto un catalogo per presentare in dettaglio il contesto storico e sociale di questi oggetti, persone e luoghi.
La strada che conduce attraverso gli oltre 400 anni di storia degli armeni in Ungheria inizia al monte Ararat, come il punto di riferimento di base dell’umanità di post-alluvione, e specialmente degli armeni, dal quale gli armeni che nel Secento immigrarono in Transilvania, capitarono infatti lontano. Ma che hanno conservato il ricordo delle origini, è provato da quella cintura di argento ed intarsiato di gemme, di fine Ottocento, conservato presso la Parrocchia Armena Cattolica di Budapest, i cui pezzi rappresentano le vedute delle antiche città armene, Varaghavank, Van, Echmiadzin, Aghtamar (ogni immagine si ingrandisce spostando il mouse sopra di loro).
Nel mezzo della sala delle origini veniamo accolti dall’icona di San Gregorio l’Illuminatore, apostolo degli armeni, per i cui efforti l’Armenia è diventato il primo paese cristiano nel 301. È un bel passaggio dall’Ararat all’altra metà transilvana della sala, che l’icona del vescovo del terzo secolo, conservata nella chiesa armena di Szamosújvár/Gherla, fu dipinto nello stile barocco popolare della Transilvania, proprio come la sua statua nella piazza principale del quartiere armeno di Isfahan porta i tratti delle figure dell’epopea eroica persiano.
L’insedimento in Transilvania è evocato da poche immagini d’archivio e oggetti – arche di corredo e un paio di medaglioni di nozze dalla famiglia Issekutz – dalle «quattro parrocchie armene», Szamosújvár (Gherla, Armenopolis, Հայաքաղաք–Hayakaghak), Erzsébetváros (Eppeschdorf, Dumbrăveni), Gyergyószentmiklós (Gheorgheni), Csíkszépvíz (Frumoasa), principalmente dalla prima di esse, le cui collezioni ecclesiastiche hanno provvisto una grande parte del materiale esposto.
La sala seguente illustra la storia della stampa del libro armeno con un gran numero di libri mai esposti, provenienti da collezioni armene del bacino dei Carpazi, tra cui la prima bibbia stampata armena del mondo. Questo tema era anche il proposito della mostra, organizzata per il cinquecentesimo anniversario della pubblicazione del primo libro armeno stampato, il libro di preghiere chiamato Urbatagirk, «Libro di Venerdì», stampato dal veneziano Hakob Meghapart («Giacomo il Peccatore») a cavallo del 1512-1513.
I brevi riassunti presso le vetrine delineano la storia della tipografia armena. La stampa di Hakob Meghapart è stata riportata dal suo successore a Constantinopoli, dove nel Settecento si sono pubblicati circa 300 opere in più di venti stampe armene. Ma gli armeni di Transilvania, che nel tardo Secento si sono uniti con la chiesa cattolica, hanno ottenuto la maggior parte dei loro libri dalla Typographia Polyglotta della Propaganda Fide romano: entro la fine del Settecento conosciamo 44 opere armene pubblicate là. L’ordine mechitarista, fondata nel 1701 a Constantinopoli e di lavoro dal 1715 ad oggi sulla isola di San Lazzaro a Venezia – i «benedettini armeni», i maggiori esponenti dell’armenologia del periodo – hanno pubblicato i loro libri in armeno in tipografie italiane fino alla fine del Settecento, ma nel 1789 hanno fondato la propria stampa, dove hanno pubblicati centinaia di libri in quasi quaranta lingue: questi, tramite la diaspora armena, hanno raggiunto anche le provincie più remote dell’impero ottomano. Nel 1773 un gruppo dei mechitaristi si stabilirono a Trieste, e nel 1810 si trasferirono a Vienna, svolgendo un’importante attività scientifica ed editoriale in entrambi i posti.
Un tipografo ungherese di Transilvania ha anche svolto un ruolo decisivo nella storia della stampa armena. Lo stampatore armeno più influente, Voskan Yerevantsi ha fondato la sua stampa ad Amsterdam nel 1660, e come era insoddisfatto con i caratteri disponibili, ha ordinato la progettazione di un nuovo tipo armeno da Miklós Kis of Misztótfalu, che presto si diffuse in tutta Europa, e le sue varie versioni sono ancora in uso.
Una sala separata è dedicata, probabilmente per la ricchezza del materiale disponibile, ai monumenti della chiesa cattolica armena in Transilvania: ritratti di pontifici, abiti ecclesiastici, pale d’altare e immagini votive. I tre ritratti portati da Szamosújvár/Gherla non rappresentano necessariamente le tre personalità più grandi della chiesa armena, si poteva scegliere anche qualcun’altro, come il vescovo Minas Zilifdarean (1610-1686), sotto la guida del quale gli armeni sono arrivati in Transilvania. Queste tre vite, tuttavia, dimostrano bene la grande portata sociale e geografica degli intellettuali armeni, e le loro possibilità di scelta fra vari centri culturali. Oxendio Virziresco (Verzár) (1655-1715), nato in Moldova, ha studiato presso il collegio missionario della Propaganda Fide a Roma. Dal 1685 ha lavorato all’unione degli armeni di Transilvania con la chiesa cattolica, prima in mezzo di grande resistenza, ma alla fine con un completo successo, e nel 1690, dopo la morte del vescovo Minas, è diventato il capo della chiesa degli armeni in Transilvania. Stephano Roska (1670-1739) proveniva da una famiglia armena di Kamenez-Podolsk. Era il prevosto armeno di Stanislawów (oggi Ivano-Frankivsk), che per conto dell’arcivescovo armeno di Leopoli ha visitato le quattro parrocchie armene della Transilvania, fondando una serie di importanti società religiose. Mihály Theodorovicz (1690-1760) è nato a Bistritz/Beszterce/Bistrița, a quel tempo un importante insediamento armeno, e da assistente di negozio è diventato l’arcidiacono di Szamosújvár. Lui ha costruito la prima chiesa armena di pietra, la chiesa Salamon (1723-1725), e ha introdotto il calendario gregoriano. Maria Teresa lo ha nominato vescovo, ma alla fine non ha ricevuto l’approvazione ecclesiastica: da allora la comunità armena della Transilvania sta sotto la giurisdizione ecclesiastica del vescovo cattolico di Gyulafehérvár/Alba Iulia.
Dagli anni 1770 il culto della Regina del Rosario era in fiore a Szamosújvár, ed i suoi auspici erano rappresentati in molte immagini votive offerte in segno di gratitudine per la salvazione da qualche grande guaio. Sulle immagini qui esposte, un cavaliere che è scappato l’allagamento, una famiglia che ha sopravvissuto a un incendio, e una donna, che si è ripresa da una malattia, dicono grazie all’intercessione della Vergine Maria.
All’inizio dell’Ottocento, i rapporti degli armeni con i loro ex centri nella Crimea e nell’Anatolia si erano allentati, ma si è aperta davanti a loro la via dell’ascensione nella borghesia ungherese. Hanno cambiato la loro lingua per l’ungherese, e fra tutte le minoranze etniche hanno partecipato alla proporzione più grande tra gli ufficiali e nel finanziamento della guerra d’indipendenza del 1848-49. Dei famosi tredici generali, eseguiti in Arad il 6 ottobre 1849, Ernő Kiss e Vilmos Lázár erano armeni, come anche János Czetz, il quale nell’esilio ha fondato l’istituto geografico militare dell’Argentina, e tracciato la carta geografica di tutto il paese. Dopo il Compromesso del 1867 tra la corte di Vienna e l’élite politica dell’Ungheria, gli armeni hanno partecipato in gran numero alla vita politica e culturale dell’Ungheria. L’ultima sala è una galleria di ritratti dei loro più prominenti rappresentanti.
D’altra parte, come una compensazione all’assimilazione, è nata l’ideologia dell’armenismo, con l’obiettivo di rafforzare l’identità armena. I suoi seguaci hanno iniziato delle ricerche importanti storiche degli armeni transilvani, hanno fondato la rivista Armenia in Szamosújvár, e nel 1905 anche il Museo Armeno (che solo adesso, nel marzo 2013 ha riottenuto la sua collezione, nazionalizzata nel 1950). Dei rappresentanti eminenti dell’armenismo, Kristóf Lukácsy e Kristóf Szongott hanno anche aderito la ricerca della preistoria ungherese, difendendo in diverse pubblicazioni il rapporto linguistico ungherese-armeno. La vetrina dell’ultima sala presenta una selezione di pubblicazioni su argomenti armeni dall’Otto- e Novecento.
Le pareti del corridoio di uscita dalla mostra sono ricoperte con fotografie di famiglie armene dalla fine del secolo, con i documenti della storia quotidiana. Centinaia di vite e di storie che mostrano chiaramente, quanto c’è ancora da ricercare in questa storia. E in questo senso il titolo di questa raccolta di foto, Frammenti di specchio, è infatti valido per tutta la mostra.
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venerdì 19 luglio 2013
Compagno, la vita non deve essere tanto grigia
Essendo una «demo», la Карнавал цветов può permettersi di non preoccuparsi della narrativa, ma si concentra soprattutto sulla dimostrazione del nuovo metodo in un modo che comunica i suoi punti di forza, e minimizza le sue debolezze. Ma anche dimostra le possibilità della nuova tecnica nel contesto dell’industria di pellicola sovietica. La pellicola ci offre quattro опыты («studi») che includono un documentario della parata del 1 maggio sulla Piazza Rossa attornon al 1935, un tipo di «danza popolare» dilettante, e un cinegiornale sul raccolto eccezionale di agrumi nella Georgia sovietica.
Il progetto è stato diretto da Nikolaj Ekk (né Ivakin), che quattro anni prima era stato il regista della Путевка в жизнь («Via alla vita»), che presenta un altro avanzamento tecnico: questo era la prima pellicola sonora sovietica. Questo film notevole è un dramma accattivante e tragica, che presenta la storia di un progetto sociale sovietico degli anni 1930 per trasformare ragazzi adolescenti senzatetto in cittadini-modello sovietici, per mezzo di una communa di lavoro ospitata in un antico monastero. Un protagonista della storia è Mustafa, di nazionalità mari, che viene strappato dalle strade di Mosca, dove la sua vita era una serie di piccoli furti, malizia e violenza. Nel corso della narrativa egli è trasformato da un giovane teppista di strada in un modello eccezionale degli ideali sovietici – e fino alla fine della pellicola, un martire per quegli ideali. Il film chiaramente elude il suo potenzalmente mortificante contenuto ideologico, controbilanciandolo con personaggi brillanti e impressionanti, i cui successi e passi falsi sono abilmente e credibilmente interpretati da un cast di giovani attori non professionali, prefigurando il neorealismo italiano di più di un decennio. La pellicola è stata ampiamente ammirata sia nell’Unione Sovietica che all’estero.
Nel corso del film Mustafa si trasforma da un ragazzo di strada dalla faccia sporca…
…in un difensore degli ideali socialista.
Nell’occidente l’avvento del sonoro sincronizzato alla pellicola alla fine degli anni 1920 sembrava generare una sete per la prossima «big thing», e i primi esperimenti di colore, cinemascope e stereoscopia (3D) si cominciano in quest’epoca. Pellicole a colori erano state già prodotte nell’epoca del film muto, ma l’avvento della pellicola sonora sembrava attizzare un interesse per nuovi approcci tecnici. Qualsiasi sforzo per aggiungere vivacità e «realismo» al cinema – anche se solo il realismo impoverito di queste opere spesso affascinanti, ma primitive – era visto come un’impulso alla vendita dei biglietti. Era in questo periodo che il regista francese Abel Gance ha fatto il suo acclamato «polivisione» spettacolare Napoléon vu par Abel Gance. Ecco qualche altri esempi isolati, scelti a caso, dell’esperimentazione con il colore.
La pellicola The Toll of the Sea (Chester M. Franklin, 1922) è uno dei primi esempi del metodo a due colori negli Stati Uniti, con il protagonista cinese-americano Anna May Wong.
Nel 1926 il pubblico britannico era divertito con una serie di brevi film di viaggio, che esaltavano le virtù della campagna inglese, intitolati The Open Road (Claude Friese-Greene), ed utilizzavano un processo a due colori.
E, durante il periodo in cui ha lavorato per uno studio statunitense, il regista ungherese Pál Fejős ha anche incluso una breve sequenza musicale bicolore nel suo film sonoro Broadway del 1929.
Non dimentichiamo che i colori delle pellicole si cambiano durante il tempo, anche quando i film sono correttamente conservati. Inoltre, il colore si cambia anche durante il processo di trasferimento dal film al video, e poi dal video alla formula digitale (avi rip, la fonte delle nostre illustrazioni). Il pubblico del tempo avrà visto delle immagini che erano molto più nitide e più chiare di queste, e che certamente rendevano più fedelmente i colori originali.
Nel Карнавал цветов un ruolo dell’ideologia è abbastanza chiara: il metodo di pellicola a colori presenta un progresso tecnico, un nuovo step sulla strada dell’avanzamento dell’Unione Sovietica, che la renderà uno stato moderno. E, come di quasi tutta la produzione di film sovietica, il suo ruolo era anche di adulare il potere. Guardiamo queste immagini delle celebrazioni del 1 maggio in Piazza Rossa:
È un po’ difficile da vedere, ma questi cavalli indossano dei leggings rossi!
Vediamo già un filo tematico? Ecco che almeno la selezione dei colori era ideologicamente conveniente.
Ecco qualche altre immagini. Gli accordi di Все выше («Sempre più in alto!») si sentono nella colonna sonora durante alcune di queste sequenze di immagini.
Авиамарш (Авиационный марш военно-воздушных сил РККА) «Все выше!» («Sempre più in alto!» Marcia delle forze aeree dell’Esercito Rosso). Musica: J. Khait. Testo: P. Gherman (1926). Canta. Evgeni Kibkalo, 1958
Il metodo sovietico a due colori era in grado di rendere un marrone decente…
…e un piacevole verde…
…e guardate a quei toni della pelle!
Mentre riguardando la pellicola, ho notato qualcosa di strano. Per la maggior parte di questo filmato, l’uomo in basso a sinistra solo guarda la sfilata; ho pensato che era solo uno della folla.
Ma poi lo vediamo girare bruscamente al cameraman, e fare un gesto con la mano, apparentemente per fermare la ripresa.
In questo filmato sembra di dare un comando verbale, con lo stesso effetto. Il filmato finisce molto rapidamente.
Quest’immagine da un sito biografico russo sembra confermare che l’uomo nell’angolo del filmato è il regista Nikolaj Ekk stesso, facendo sapere al suo cameraman quando iniziare e quando interrompere la ripresa.
Ecco alcuni altri esempi dagli altri «опыты». Vi è una sorta di gioia nostalgica in queste immagini, come se il mondo dell’epoca fosse stato tanto semplice come questa formula di colori. Come le seguenti immagini mostreranno, anche se queste immagini non riescono di rendere un colore preciso, almeno spesso producono un effetto piacevole.
Dalla sezione «Danza popolare»:
E dall’«Autunno nel Sud»:
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