lunedì 22 giugno 2015

Su uno dei tetti del mondo: Xinaliq


«Quando vennero i comunisti, i libri si sono evacuati dal villaggio, li hanno portato nella grotta del Şahdağ. Stavano lì, in una pila grande così», il piccolo uomo alza la mano all’altezza degli occhi. «Ma i comunisti li hanno trovati, e hanno dato fuoco. Fino allora la grotta era bianca all’interno, ma da allora è completamente nera dalla fuliggine.»

«Mio nonno ha murato i nostri libri in una finestra, quando vennero i comunisti. Li ha messi in una delle finestre, e l’ha murata dentro e fuori, così che nessuno poteva vedere niente. Quando è tornato dal Gulag, perché era un ricco proprietario di pecore, un kulak, come hanno detto, e l’hanno portato via per dieci anni, dunque quando è tornato, ha immediatamente chiesto se la casa era ancora in piedi. Lo era, ma ormai apparteneva al kolkhoz, l’ufficio del kolkhoz era installato lì. Nella notte, quando nessuno l’ha visto, ha aperto la finestra, e rimosso i libri.»


Il nostro ospite, Gadjibala Badalov ci mostra il suo piccolo museo privato esposto in una vetrina nella sua «bella camera», il lavoro di una vita. Vecchie brocche, monete, spade e fucili, tutto ciò che era capace di raccogliere dai vicini nel corso degli anni, in cambio di favori o di una pecora. La completa cultura materiale di un villaggio di duemila abitanti, e allo stesso tempo di un intero popolo, uno dei popoli più antichi del Caucaso, che abitano solo in questo villaggio. E naturalmente i libri, i libri miracolosamente salvati. Non riesce più a leggerli, mi chiede quale di essi sia scritto in arabo, in persiano, in turco ottomano. Ottant’anni fa, insieme agli insegnanti musulmani e ai libri si ha spazzato anche le lettere arabe da Xinaliq.


Il villaggio, che si trova sotto il crinale del Grande Caucaso, quasi completamente isolato dal mondo esterno, non fu mai raggiunto da conquistatori, ma qualche solitari insegnanti erranti, scribi e missionari a volte trovarono la loro strada qui. Poi il villaggio accettò ciò che portarono, ma mantenne anche il rispetto per i loro predecessori. Nel punto più alto del paese sorge la moschea, fondata verso 1200, e un po’ al di sotto di esso la casa di un pir, un uomo santo zoroastriano del 7° secolo. Nel bosco si trovano ancora alcuni âteshgâh, templi del fuoco zoroastriani, e intorno al villaggio le tombe di molti pir zoroastriani, cristiani e musulmani, che gli abitanti venerano ancora, e si lasciano seppellire intorno a loro. Le tombe più recenti hanno anche dei nomi, ma le più vecchie sono segnate solo da una pietra in piedi, migliaia di pietre per i campi intorno al villaggio di migliaia di anni, con le pecore e vitelli al pascolo in mezzo a loro.

La tomba di Baba Jabbar (15° sec.), con un piccolo cimitero attorno ad essa

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La scrittura araba, che un tempo era così diffuso che ogni famiglia aveva la sua libreria di casa, fu interrotta, ma il bisogno della cultura si è sopravvissuta tra la popolazione locale. Questo si vede nei numerosi poeti locali che pubblicano le loro poesie in lingua khinalug in libretti sottili, stampati in cirillico o lettere latine, e nei pittori con i loro paesaggi tipicamente grotteschi di Xinaliq. E anche nel nostro ospite, il proprietario di pecore e storico dilettante, che ha appena pubblicato il suo quarto libro in khinalug e azero, sui nomi e gli usi tradizionali delle piante medicinali conosciute a Xinaliq.


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Nel villaggio sul cima della collina ancora si trovano iscrizioni arabe e persiane qua e là. Anche se non li possono leggere più, li tengono in molta considerazione. La vita quotidiana del villaggio accade intorno a loro, le donne lavano nell’acqua di sorgente di montagna che si conduce ai pozzi comuni, i bambini conducono a casa i vitelli che ancora non conoscono la strada, gli uomini impastano le tegole di combustibile di letame e paglia, vecchi uomini chiacchierano sui tetti piani. Dal basso, la valle del fiume si sente il belato del gregge che solo poche ore fa scorreva per la pianura. E anche se vediamo i segni del cambiamento – tra cui il fatto che noi stessi siamo qui –, tuttavia, seduti davanti alla casa nel crepuscolo, e guardando giù sul villaggio, abbiamo il sentimento che il tempo, appunto come i pir, i libri e le lettere, una volta arrivato a Xinaliq, non passa oltre, ma si accumula, diventa sempre più denso.



Rovshan Gurbanov, Elshan Mansurov, Nadir Talibov, Kamran Karimov: Getme, getme (Non andare via). From the album Azərbaycan Məhəbbət Təranələri (Canzoni di amore dall’Azerbaigian, 2014)

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martedì 2 giugno 2015

Santa Nino e la luce mistica

La parete del monastero di Samtavro, di fronte alla cella di Santa Nino

«I miei occhi sono diventati oscuri, e voi, invece, vedete la luce?» – segue la risposta: «La vediamo fulgente, la luce del sole.»

La festa di Santa Nino (წმინდა ნინო) (Colastra 296 circa – 338 circa), viene celebrata secondo il calendario ortodosso Georgiano, data l’importanza che ha questa Santa per il Paese caucasico, in due date. La più importante il 27 gennaio, la seconda il 1 di giugno.

Santa Nino, giunta da Costantinopoli, predicò ed introdusse la religione cristiana in Georgia (allora Iberia). Considerata originaria di Colastra in Cappadocia, è ritenuta da diverse fonti, parente di San Giorgio. A lei sono attribuite la conversione della regina Nana ed in seguito, del Re Mirian III di Iberia.

L’immagine di Santa Nino in una chiesa rurale della Georgia del Sud

«Vedo figlia mia, il tuo potere è uguale al potere di una leonessa, che ruggisce più forte di qualsiasi altro animale a quattro zampe, o come la femmina dell’aquila, che vola alta, più del maschio, e che riesce a racchiudere tutto il mondo, nella pupilla, come una piccola perla, e come fuoco cerca cibo per se stessa, e vedendo il cibo, chiude le ali e si getta su di esso. Lascia che la tua vita sia così, guidata dallo Spirito Santo.)» (ქართლის ცხოვრება, 47).

La tradizione vuole che il Re, smarritosi in un tenebroso e fitto bosco durante una battuta di caccia, si salvi solo dopo aver pregato il «Dio di Nino».

«Mentre il re Mirian era andato a caccia, nel folto di una selva, in pieno giorno fu oscurato il sole, e si fece buio fitto. Il re disperato chiedeva aiuto ai suoi dèi Armaz e Zaden, ma invano. Allora si ricordò del dio di Nino crocifisso e gli chiese aiuto e si fece luce: il dio di Nino aveva restituito la luce al sole. La versione del monaco Arsen aggiunge: Mirian ʻfu preso all’improvviso dalle tenebre, cadde e non poté più continuare il cammino; i suoi compagni di caccia vedevano come sempre la luce fulgente del sole e continuavano a camminare, mentre il re si fermò, preso da una cecità strana, fu preso dal panico e provo della speranza di vita.’»

La scena della caccia sul Pilastro Santo della cattedrale di Mtskheta

Come nella dantesca Divina Commedia, la selva oscura è la rappresentazione di una vita (e del regno di Kartli) priva della luce di Cristo (rappresentata dal sole). Il re Mirian ed il suo regno infatti, sino a quel momento avevano sempre vissuto nelle tenebre, riponendo fiducia nel falsi dèi.

La conversione alla vera luce, le permise di vedere il sole di mezzanotte: «il sole di giustizia in mezzo alla notte».

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura,
esta selva selvaggia e aspra e forte,
che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

(Dante Alighieri, Inferno I, vv. 1-12.)

Anche san Paolo, nel momento della conversione, vide una grande luce:

„Mentre ero in viaggio e mi stavo avvicinando a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una grande luce dal cielo sfolgorò attorno a me; caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: ʻSaulo, Saulo, perché mi perséguiti?’. Io risposi: ʻChi sei, o Signore?’. Mi disse: ʻIo sono Gesù il Nazareno, che tu perséguisti’. Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono la voce di colui che mi parlava. Io dissi allora: ʻChe devo fare, Signore?’. E il Signore mi disse: ʻÀlzati e prosegui verso Damasco; là ti verrà detto tutto quello che è stabilito che tu faccia’. E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni giunsi a Damasco. Un certo Ananìa, devoto osservante della Legge e stimato da tutti i Giudei là residenti, venne da me, mi si accostò e disse: ʻSaulo, fratello, torna a vedere!’. E in quell’istante lo vidi. Egli soggiunse: ʻIl Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito. E ora, perché aspetti? Àlzati, fatti battezzare e purificare dai tuoi peccati, invocando il suo nome’». (Atti, 22,6-16)

«Colui che non riusciva a vedere la luce del sole neanche in pieno giorno diviene capace di vederla a notte fonda. […] È il sole spirituale che dà la luce, fa rispendere il sole reale. È la luce di questo sole che entra in Kartli, paese ʻa settentrione’ ossia senza sole spirituale, oscurata dal peccato, con ʻi monti con le cime coperte dalla nebbia del peccato’.»

«[Santa Nino] nei pressi del confine vicino alla città di Urbnisi, vide la gente adoratrice degli dèi pagani che personificavano il fuoco, le pietre, il legno. Si unì ad una folla che si recava nella grande città di Mtskheta, sede dei grandi re, per il commercio e la preghiera da elevare ad Armaz. ʻE versavo le lacrime e gemevo verso l’Iddio, – narra Nino – per la perdizione del paese a settentrione, in cui la luce era stata occultata, vinta dalle tenebre.’ […] Nino, angosciata per questo popolo che viveva nel buio, pregò il suo Dio fatto uomo per la salvezza degli uomini di mostrare la vera luce.»

La cella di Santa Nino nell’ex giardino reale di Mtskheta, oggi del monastero di Samtavro

L’immagine della cima e del monte, così comune e frequente in Georgia è da associarsi alla presenza in passato, appunto dei luoghi di culto e della presenza di statue legati ai culti pre-cristiani (e quindi secondo la prospettiva salvifica del cristianesimo, avvolte appunto nella nebbia della falsa fede).

E così accadde:

«Finita la preghiera, all’ovest l’aria si mosse, sorsero i venti, rimbombò un tuono tremendo, apparvero nubi orribili che si affrettavano verso il luogo su cui stavano le statue. La gente presa dalla paura incominciò a fuggire; nel frattempo dalle nubi cominciò a grandinare, le statue ne furono percosse e ridotte in polvere, che i venti sparsero sui monti. Sopravvisse soltanto il rubino dell’elmo di Armaz. Quando si calmarono le tempeste, santa Nino, incolume, lo trovò, lo prese e lo riportò nella vecchia città di Mtskheta, destinata alla rimascita. Così fu distrutta la vecchia Kartli insieme ai suoi vecchi dèi, continuando tuttavia a vivere, poiché non erano ancora distrutte le statue, che aveva costruito nella sua anima, e questo legame interiore con il divino le era ancora fonte di forza di vivere.»

Non è un caso infatti che santa Nino, nel suo tentativo di convertire la Kartli al cristianesimo, riponga proprio su una altura la prima croce (fatta coi tralci della vite, tenuti assieme dai capelli stessi della Santa).

«La croce di Santa Nino» nelle montagne della Georgia del Sud, e la chiesa di Jvari (Santa Croce) costruita sul luogo della prima croce eretta da lei


In seguito a questo fatto, il Re stesso dichiarò nel 327 (circa), il cristianesimo religione ufficiale. La Georgia divenne quindi il secondo Regno ad adottare il cristianesimo, dopo l’Armenia nel 301 (circa).

«Intanto Santa Nino andò nel luogo in cui era piantato un albero, lì pregò per la Kartli per sei giorni, nel settimo giorno invece venne a Mtskheta, ripercorrendo in questo modo l’atto di creazione in sei giorni, creando, cioè, di nuovo il paese moribondo. Arrivata, andò ad abitare nel giardino del re. Era uno splendido giardino: con un albero al centro, con gli uccelli che vi dimoravano, ma il significato di questo giardino non era stato ancora rivelato. Esso viene reso esplicito quando Nino, portando con sé lo Spirito Santo, dà il significato agli oggetti che la circondano: così l’albero diventa quello della vita, gli uccelli si trasformano in quelli dell’Eden: vengono, si lavano nell’acqua, si nutrono d’erba e si mettono ad annunciare che il samotxe è diventato proprietà di Nino; intanto va notato che nell’antico georgiano la parola სამოთხე designava sia giardino che paradiso. In questo modo, con un gioco di parole, si annuncia la trasformazione del giardino in paradiso, trasformazione avvenuta grazie a Nino.»

(Tutti le citazioni, dove non diversamente indicate, sono tutte da riferirsi al testo Santa Nino e la Georgia, di G. Shurgaia)

Processione di Pasqua nella cattedrale di Mtskheta, appunto un mese fa