domenica 31 agosto 2014

Colosso

La scena finale del film cecoslovacco Holubice («La colomba bianca», František Vláčil, 1960) nasconde una piccola sorpresa per il pubblico di oggi, se conoscono Praga, e se lo guardano attentamente. La scena è una singola presa da una camera piazzata in un punto alto in qualche parte dell’ulica Revoluční, che percorre quasi l’intero orizzonte di Praga, come esso era al momento della produzione del film, verso 1959-1960.


Guardando a sud da via Revoluční, presto vediamo le finestre ad arco e merlature del centro commerciale Palladium di oggi (allora Josefská Kasárna, caserma dell’esercito cecoslovacco). Oltrepassiamo anche altri edifici familiari, e attraverso la foschia vediamo le famose mille torri di Praga. Avvistiamo le torri gemelle gotiche della chiesa quattrocentesca di Santa Maria a Týn, e nella lontananza, su una collina grigia, la Petřínská rozhledna del 1891 (una torre di vedetta ispirata alla Torre Eiffel a Parigi) che segna la collina di Petřín. Dopo la seconda antenna televisiva sul tetto scopriamo il monumento probabilmente più identificabile di Praga, il Castello, il Hradčany. E poi arriviamo a un mistero.

Che diavolo è quello?


Quelli che conoscono l’orizzonte odierno di Praga, senza dubbio ricorderanno, che in cima alla collina di Letná (la freccia rossa nella foto) che domina la città dal capo del ponte che porta il nome di Svatopluk Čech, si erge una scultura cinematica simile a un metronomo. Nel 1959 però qualcosa di molto diverso si ergeva lì. Nella foto di sopra si profila il contorno piuttosto fioco di una grande lastra di roccia, ma in quest’immagine presa da lontano non possiamo determinare con certezza che cosa sia.

Per comparazione, ecco ciò che sta lì adesso.


La scultura cinetica intitolata Stroj času («Macchina di tempo»), opera dello scultore Vratislav Karel Novák, è popularmente conosciuta come il «Metronomo di Praga», anche se il meccanismo sia completamente diverso dal metronomo familiare inventato da Mälzel. Fu eretta nel 1991 per celebrare i 100 anni delle mostre industriali a Praga, e ne riflette il tema con l’uso di materiali e forme industriali. È stato destinato ad esser temporaneo, ma, come vedremo, la temporanea può involontariamente diventare permanente, mentre le cose destinate a permanenza possono esistere solo per un tempo sconcertantemente breve.

E, come vedremo, anche questo post avrà una conclusione sconcertante.

Un monumento per l’eternità

Nel 1948, subito dopo l’assunzione del potere comunista in Cecoslovacchia, si è presa la decisione di onorare Stalin al suo 70° compleanno con un grande monumento, eretto in un sito eminente di Praga. Ma la politica interna dei vari comitati di pianificazione e di altre forme di controllo politico hanno praticamente garantito che il progetto avesse durateo molto più tempo del previsto. Passava più di un anno prima che il concorso per il progetto fosse stato ufficialmente annunciato nel 1949.

Gli artisti della Cecoslovacchia erano invitati a volontariamente presentare le loro visioni per il monumento, una delle quali sarebbe stata selezionata per costruzione sulla collina di Letná, in un alto punto panoramico che domina il centro della città. Era tacitamente ovvio, che volontario significa infatti obbligatorio per qualsiasi artista di qualche rilievo.

Si racconta che Otakar Švec, lo scultore riconosciuto che aveva creato un’opera notevole durante il periodo tra le due guerre mondiali, ha chiesto all’occasione di una cena di gulaš il suo amico pittore di delineargli un disegno. L’abbozzo piaceva a Švec, ci ha fatto alcune modifiche, lo ha convertita in una proposta plastica, e l’ha presentata, probabilmente ritenendo la questione chiusa dalla sua parte.

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Švec probabilmente non aspettava mai di vincere il concorso. Aveva semplicemente assunto che il risultato fosse stato predeterminato, ed era piuttosto sorpores quando è venuto a sapere che il suo progetto era stato selezionato tra le 90 opere presentate. Il modo casuale della sua progettazione (a quanto pare, il suo amico l’ha abbozzato su un tovagliolo) suggerisce che non aveva investito grande sforzo intellettuale nel progetto.

Švec si è improvvisamente intrappolato. I burocrati del concorso l’hanno sottoposto a un’infinita serie di visite ufficiali al suo studio, commentando il suo lavoro con vari cavilli e pedanterie, che Švec non poteva che accettare e realizzare. Con l’accumulazione del ritardo è diventato sempre più chiaro che un monumento semplicemente grande non sarà sufficiente: esso dovrà essere gigantesco. E ciò che si è iniziato come un’abbozzo su un tovagliolo, si è trasformato nel più grande monumento di Stalin in qualsiasi parte del mondo, e il più grande gruppo statuario dell’Europa.

Il gruppo ha rappresentato Stalin alla testa di due linee di figure, di cui quella a sinistra simboleggiava l’Unione Sovietica, e la destra Cecoslovacchia. Era più di 15 metri di altezza, e 22 di lunghezza. La testa di Stalin da sola pesava 52 tonnellate, e l’intera opera 17.000 tonnellate. Un team di oltre 600 persone – artisti, costruttori, scalpellini – erano impiegati sui lavori. Con una sottostruttura di cemento armato, e con un rivestimento esterno di granito ceco di alta qualità, il monumento fu costruito per l’eternità.

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Сталинский закон. Пётр Киричек, дуэт с С. Хромченко

Le seguenti otto fotografie del monumento di Stalin provengono dalla comunità online Fortepan (fortepan.hu), un archivio ungherese sempre crescente di fotografie private condivise volontariamente dai loro proprietari. Esse si pubblicano qui per la prima volta al di fuori del sito Fortepan.

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Lo sfortunato Švec probabilmente sapeva, che aveva partorito un mostro, e nutriva dubbi se esso poteva mai essere costruito. Credeva, e forse sperava, che non si fosse trovato abbastanza granito di alta qualità, ma alla fine il granito necessario fu trovato in due posti. Nella Cecoslovacchia dell’epoca non esistevano dei gru che potessero manipolare tali enormi pezzi di pietra, e così i carri armati tedeschi «Panzer», bottini di guerra, erano utilizzati per lo spostamento dei blocchi. La pressione del Cremlino sembra di essere stato forte. Sul percorso del trasporto le strade di Praga dovevano essere ampliate, e i ponti rafforzati, tutto ciò a costi enormi.

La fase di costruzione si è iniziata il 25 febbraio 1952, la festa dell’armata sovietica, con la deposizione del primo blocco di granito. Entro un anno Stalin era morto, ma il lavoro naturalmente si è continuato. Ormai era troppo tardi per ritirarsi. Švec, a quanto pare, era sempre più mortificato dalla sua partecipazione nel progetto. Una volta che il piccolo abbozzo sul tovagliolo fu ampliato a tali proporzioni epiche, le sue carenze diventarono spiccanti. Švec ha risolto alcuni dei problemi di progettazione semplicemente mettendo bandiere nelle mani delle figure per coprire le superfici vuote non elaborate nel disegno originale. Secondo un racconto, un giorno fu pubblicamente umiliato, quando un tassista ha dimostrato che la terza figura al lato ceco del monumento, una donna, sembrava raggiungere la bracchetta dell’uomo che stava strettamente dietro di lei.

Jan Lukas: Marzo 1953 (Stalin e Klement Gottwald)

Marcia funebre sulla piazza San Venceslao di Praga al giorno della sepultura di Stalin, 9 marzo 1953

Il monumento fu finalmente inaugurato il 1° maggio 1955. Il verdetto del compagno Nikita Sergeevic Krusciov: «Troppo grande, troppo tardi.» La lingua popolare ha battezzato il mostro fronta na maso, «la coda per la carne», un riferimento non troppo sottile alla scarsità di cibo causata dalla pianificazione centralizzata. L’artista, Otakar Švec non era presente alla cerimonia. Aveva commesso suicidio poche settimane prima, forse a causa del precedente suicidio di sua moglie, combinato con il rimorso per la mostruosità che aveva creato, e magari con la pressione della costante sorveglianza della polizia segreta.

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Krusciov a Praga: «Troppo grande, troppo tardi»

La data precisa della morte di Švec era fino a poco tempo fa difficile da individuare, ed era una sorte di leggenda. Alcune fonti hanno affermato che si fosse ucciso il giorno prima dell’inaugurazione del monumento al 1° maggio, suggerendo che la statua ne era il motivo principale. Ma la Wikipedia ceca mette la data al 4 aprile, mentre la Wikipedia inglese al 3 marzo, un mese prima. Quest’ultima sembra essere il risultato delle ricerche archivali di Mariusz Szczygieł per suo libro Gottland, pubblicato nel 2008, e così sembra la più credibile.


Un’eternità di solo otto anni

Il 25 febbraio 1956, tre anni dopo la morte di Stalin, al 20° congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica Krusciov ha tenuto un discorso dal titolo О культе личности и его последствиях («Sul culto della personalità e le sue conseguenze»). Esso era una forte denuncia di Stalin e il culto della personalità che si era formata intorno a lui. Da quel momento, i giorni del monumento di Stalin a Praga erano improvvisamente contati. Esso rapidamente si è trasformato da un progetto prestigioso in un imbarazzo aperto al Partito Comunista. Doveva sparire.

Per quanto lo volevano molti nel Partito, una struttura così massiccia non si poteva distruggere in secreto. Perciò si è deciso di demolire la mostruosità almeno in un modo rapido, con la dinamite. Nel novembre del 1962, ottocento chilogrammi di esplosivo sono stati usati per farlo saltare. Benché l’esplosione fu senza dubbio chiaramente sentito per tutta la città, la stampa ceca del tempo taceva su quest’argomento. È stato ufficialmente proibito di documentarlo in foto, ma comunque qualche immagini si sono scattate.


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Ci è voluto circa un anno per pulire la piattaforma dei pezzi del monumento che sono rimasti dopo l’esplosione. La piattaforma poi è rimasta imbarazzantemente vuota per i prossimi 29 anni, fino a quando il «Metronomo di Praga» ha trovato il suo posto lì.

Un serbatoio di memoria pubblica

Un altro film ci dà uno sguardo in ciò che è successo dopo. Il film Postava k podpírání («Un personaggio in bisogno di sostegno»), un precursore della Nuova Ondata ceca, fu realizzato a Praga nel 1963, poco dopo la demolizione del monumento di Stalin e la spazzatura delle macerie. I direttori Pavel Juráček e Jan Schmidt usavano di modo accentuato la piattaforma vacante in un’immagine significativa verso la fine del film, andando fino al punto che continuavano il suono della scena precedente, dove un uomo che trasporta una caldaia cade giù per le scale, proprio nel momento in cui il Stalin di pietra, ormai spiccantemente assente, avrebbe dovuto comparire nel film.


Quest’immagine sembra di annunciare un cambiamento di clima politico, l’allentamento dei vincoli, un disgelo. La futile ricerca del protagonista per il burocrata sfuggente Josef Kilián, nel tentativo di liberarsi dal peso di un gatto in affitto, fu inevitabilmente descritto come «kafkiana» dai critici stranieri, e segnalava una tolleranza fresca dalla parte della censura della critica implicita del funzionamento dello stato. Liberato dallo sguardo di panopticon di Stalin che una volta penetrava direttamente dall’alto nel cuore della città, il sole si è finalmente rasserenato. È risorta la Nuova Ondata cecoslovacca, e dopo di essa la Primavera ceca, piena d’ottimismo e con la promessa del «socialismo dal volto umano». Come ormai lo sappiamo, tale ottimismo era tragicamente prematuro.

È interessante notare, che la memoria pubblica del monumento di Stalin era molto più resistente alla distruzione che il granito e il cemento armato. Ci sono persone a Praga che ancora dicono “ci vediamo a Stalin” invece di “al metronomo”. Il sito è un serbatoio della memoria pubblica, il cui valore locale è stato sfruttato più volte dal tempo della rivoluzione di velluto in poi per scopi politici e pubblicitari. Nei primi anni del 1990 la stazione pirata Radio Stalin operava nelle camere sotto la piattaforma. Nel 1996 l’effigie di Michael Jackson si è eretto lì per promuovere un tour di concerti. Durante le elezioni parlamentari del 1998 un cartellone apparì lì per promuovere la candidatura di Václav Klaus.

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Nel 2006, in onore dell’opera di Švec e per commemorare il 51° anniversario del suo suicidio, l’artista ceco Martin Zet ha organizzato la mostra Osud národa – sochař Otakar Švec («Il destino della nazione – Lo scultore Otakar Švec»), che includeva immagini dell’opera precedente di Švec. Il sito della mostra era Artwall, la galleria all’aperto menzionato in un post precedente, che si trova sulla fronte di riva della collina di Letná.

Nel 2011, all’occasione del festival Prague Quadrennial, le parole «Le lacrime di Stalin» in lettere bianche di sei metri in altezza si apparsero davanti al metronomo, probabilmente come riferimento alle «Stalinovy slzy» (Le lacrime di Stalin), un marchio di vodka disegnato per i turisti occidentali a Praga. E più recentemente, il primo giorno delle elezioni parlamentari tenutesi nell’ottobre del 2013, un enorme poster raffigurante il Presidente della Federazione Russa, Vladimir Vladimirovich Putin in costume di dittatore similare a Stalin, fu sollevato sul sito da un gruppo che cerca di mettere in guardia contro la minaccia del ritorno di un governo comunista nella Repubblica Ceca.

C’era una volta un detto comune nel blocco dell’Est, a volte citato sul serio, e a volte con ironia amara: Пока Сталин живёт, всё будет хорошо («Finché Stalin vive, tutto va bene»), il quale in questi giorni è parafrasato così: «finché il metronomo sta lì, tutto va bene a Praga». Il monumento di Stalino a Praga è sparito molto tempo fa, ma il sito in cima alla collina di Letnà detiene un forte carico politico, ancora vivo nella memoria pubblica, che avrà bisogno di molto tempo per dissipare.


venerdì 29 agosto 2014

Cartoline rosa 1.

Queste lettere, che ora cominciamo a pubblicare, si susseguivano per molti anni. Anche noi le vogliamo pubblicare durante lo stesso periodo, ciascuna di esse esattamente cento anni dopo che è stata inviata.

Facciamo prima conoscienza (almeno superficialmente) della destinataria e del mittente di queste lettere.

La ragazza, Antonia Zajac è nata nel 1896 in un villaggio della Galizia occidentale, Cieklin, nella valle del Dunajec.
I suoi antenati provenivano da una nobile famiglia, che poco a poco ha perso tutte le loro ricchezze in divertimenti e sulle carte. Suo padre, che non ha potuto sopportare di lavorare come dipendente nel loro proprio terreno di una volta, ha scelto l’emigrazione in America invece della costante vergogna.
Dalla loro terra nativa la via più semplice pareva di partire da un porto dell’Adriatico, che era utilizzato per l’emigrazione a scala grande dai cittadini della Monarchia. Tuttavia, arivati a Budapest, il padre è morto, e la madre con quattro figli era intrappolata nella città straniera e apparentemente senza speranze. Ma Óbuda – il sobborgo settentrionale di Buda, metà agricolo e metà industriale, che si unirà a Budapest nel 1873 – non ha abbandonato gli orfani, come ha provveduto a molte altre famiglie senza patria. Ha anche preso sotto le sue ali protettive i figli e le figlie di ungheresi, tedeschi, ebrei, slavi e tutti gli altri gruppi etnici, che erano legati insieme dalla povertà e dall’instinto comune di rimanere a galla.
Il figlio maggiore, Feri, divenne assistente tappezziere. Fra le sue tre sorelle più giovani Antónia (una dei protagonisti della nostra storia) era impiegata in una passamaneria, mentre Vera e Manci hanno ricevuto lavoro nella rinomata fabbrica tessile locale Goldberger, la Goli, come era comunemente chiamata.


L’altro protagonista della nostra storia, Károly Timó (nato Szedlák) è nato nel 1892 come figlio di una fanciulla, Katalin Szedlák, e fu adottato da un calzolaio di buon cuore di Óbuda, che non aveva figli, Ferenc Timó e sua moglie, nata Anna Hautschild.

Károly Timó è cresciuto a Óbuda, e dopo la scuola elementare è diventato un apprendista, e poi assistente passamantiere. La bottega del suo maestro Bernát Reiner era nel quartiere di Terézváros, in una delle ancora nuove case della Kleine Johannes Gasse (dopo via János Kis, via Piroska Szalmás, e ora via László Németh). Il giovane ragazzo aveva una lunga strada per raggiungere la bottega. Il tram era ingombrante e costoso, così ogni mattina ha attraversato il Danubio con il propeller, e poi ha camminato tre quarti d’ora attraverso i quartieri Angyalföld e Erzsébetváros.

Ma i brevi week-ends erano riservati per la vita privata. La loro residenza comune a Óbuda, e la professione comune hanno portato i giovani vicini l’uno all’altra. Aggrapparsi insieme, fondare una famiglia, significava anche un’opportunità di far fronte alle difficoltà della vita.

Questa foto della delicata ragazza polacca con gli occhi sognanti è un documento di un rapporto in erba, di un flirt modesto.


«Il 29 ottobre 1913. In memoria a Károly T., da Antónia Z.»

I suoi occhi sono blu chiaro, come lo suggeriscono ancora i tratti sbiaditi. La parte inferiore della fotografia, macchiata di grasso e leggermente sfilacciata, indica che il proprietario ha portato con sé il ritratto datogli per lungo tempo.

Le foto di studio della giovane coppia già suggeriscono una relazione seria, e un matrimonio progettato per il prossimo futuro.


Ma come sappiamo, tutto fu esaminato e soppesato. La macchia fu inviata. Con ottimismo, con la promessa della stretta vittoria. Fino a quando le foglie cadono…

La prima cartolina rosa



Nome del mittente: Károly Timó
Indirizzo: All’Egregia Signorina Antónia Zajác
III. distretto, via Kis Korona 52.
Budapest

il 28 [di Agosto 1914]

Mio caro figlio [nota la tipica forma d’indirizzo di mariti e fidanzati alle loro donne a cavallo del secolo!]
Ti scrivo queste poche righe mentre friggo la pancetta a Szerencs nella mattina. Che ne dici di questa sorpresa! Avevo pensato che ancora il 10 [di settembre] sarò a Budapest. Il viaggio è abbastanza piacevole, anche se procediamo molto lento. Ho dormito a Miskolc, ora vado a Sátoraljaújhely, e di lì a Mezőlaborc [nel 2014, Medzilaborce, Slovacchia]. Durante il viaggio avremo pasto caldo, perché si cucina per noi. Per alcuni 3-4 giorni faremo bene, e poi cominceremo a giocare soldati. Ti abbraccio e bacio
Károly

Saluti a tua madre e sorelle, e a miei genitori


[La prima cartolina è stata scritta durante il viaggio al fronte. Un bel giocar sodato in vista!]

Cartolina successiva: 25 settembre 1914

martedì 26 agosto 2014

Nascosto agli occhi del mondo


Fermiamo la macchina sotto gli alberi, subito dopo il cartello che indica la chiesa. Alberi grandi. Un cancello. Pietre.
A sinistra, una piccola casa, di dove si fa avanti un uomo giovane.— You want to visit the church, maybe. I can open it for you.
Cammina un po’ curvo, con il viso arrosato dal calore. Ci da la mano. Un uomo giovane in sbiadita maglietta blu, pantaloncini stampati a fiori, e ciabatte di plastica blu.
— I’m the priest, even if I don’t look like one.

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Il villaggio laggiù è deserto, nessun volto alle finestre, nessun’ombra, nessuna voce, nessun cane che abbai o salti davanti le ruote. Un gatto che fugge al mio approccio. Trecce di aglio e cipolle appese ai portici, brocche di latte vuote. Annunci di morti chiodati a un palo. E, come per incanto, due trattori crociandosi la pista a tutta velocità davanti a me, prima di scomparire altrove.

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Camminiamo dietro il prete. Bisogna salire le scale, attraversare una porta che si apre nel muro di pietra a secco, lasciare dietro i pini e tigli che s’intrecciano i loro rami per nascondere quello che deve essere nascosto. È così che la chiesa di Borač si nasconde da secoli dagli occhi del mondo, nell’ombra della roccia che si emerge dietro di essa, anch’essa una roccia tra le rocce.


Lui ci crede? Sì, ci risponde, è sicurissimo che una volta c’era una città lassù, una città enorme, e questa chiesa ne era la cattedrale. Era una città prospera, una città potente, come lo testimoniano gli affreschi della chiesa – arcangeli in corazza, santi di volto serio, Costantino ed Elena che mostrano la vera croce, un vecchio dell’Apocalisse faccia a faccia con l’Arca di Noè, Cristo Pantocratore e Cristo Emmanuele su entrambi i lati della porta che collega il minuscolo nartece con il minuscolo santuario, e in fondo l’iconostasi con dipinti naif.

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Ma dov’era la città?
— Up there, you see, all these rocks — the city was there.

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Ci sono delle rovine lassù? Egli esita.
Sì, rovine, tutto è in rovina, non si vede niente. Sì, ci è salito una volta, quando è venuto qui.


Ci mostra la pila di rocce, la cresta che disegna i contorni di bastioni favolosi sul cielo, la frana che ha sepolto il percorso alla città morta. E io penso a tutte quelle città sepolte sotto l’acqua. Alla città di Ys sotto il mare al largo della costa della Bretagna, a Kitezh sotto le acque del lago di Svetlojar, a queste città di cui solo le anime pure possono ancora sentire le campane. A Borač nella Serbia centrale, la città inghiottita nell’aria, assimilata in se dalla roccia alla fine del 14° secolo, nel tumulto dell’avanzamento dell’armata ottomana, quando tutta l’area circostante fu abbandonata dalla sua popolazione in fuga.
Ci crede il nostro giovane prete, perduto nel suo deserto?
— The city was up there, see.
Stiamo partendo.
Al momento di sederci nella macchina, un ultimo sguardo intorno a noi, e lì, dietro di noi, ecco un’altra città nascosta dall’erba alta. Non c’è nessuna tomba in questo cimitero che non risali ai secoli passati, nessuna che aspetti gli abitanti del villaggio laggiù, nessuna croce che non si giri verso la scogliera.

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domenica 24 agosto 2014

Multiculti

V/24. Ihre werte atress [Adresse] habe ich von Herrn Jenö Singer erhalten, und bitte meiner auch gedenken mit Gruß: Franz Horváth. / Meine atresse [Adresse] ist. Budapest II. Bez[irk], Csónak gasse N° 13. 24 maggio 1900. Ho ricevuto il Suo prezioso indirizzo da Sig. Jenő Singer, e La chiedo di ricordare il mio. Con saluti: Ferenc Horváth. / Il mio indirizzo è: Budapest II., via Csónak 13.

An [den] Wohlgeboren[en] Herrn Anastagi Piero. Rue Vacchereccia 7. Florence, Italien.All’egregio Sig. Anastagi Piero. Via Vacchereccia 7. Firenze, Italia

Questa cartolina, scritta in un tedesco alquanto difettoso e misto con un po’ di francese, fu inviato da uno dei posti più belli del mondo all’altro, da sotto il Castello di Buda – a pochi metri dalla curva a gomito, dove nel 1937 Wilhelm Miklas e Miklós Horthy salirono al Castello – a sotto il Palazzo Vecchio di Firenze, a due strade dal Ponte Vecchio e la Biblioteca Nazionale, dalle cui finestre si apre una prospettiva sull’Arno che seriamente ostacola ogni ricerca.


Nel primo piano della cartolina, inviata negli ultimi mesi del secolo passato – o nei primi del nuovo? – ancora si vede il maestoso Bazaar del Castello, il quale, dopo essere stato distrutto durante la guerra, si sta ricostruendo in questi giorni. E nel suo fondo, le romantiche stradine del Montmartre di Budapest, il Tabán, che scomparirà senza lasciare traccia durante le demolizioni del 1930. Il loro mondo incantevole si ricostruirà su tali siti, come Tabán Photo Gallery, Tabán Anno, Falanszter, la carta interattiva del vecchio Tabán, la compilazione d’anniversario di Cink.hu, e, naturalmente, gli essay dell’eccellente storico della città Noémi Saly, e la grande mostra del Tabán recentemente organizzata da lei.


Accanto a questa cartolina trovo anche un’altra lettera di multiculti sul mercato delle pulci di Berlino. La busta, con la testata di compagnia in francese, e indirizzata in tedesco, si inviò nel 1943 con francobolli greci a Berlino, con il timbro di svastica delle autorità di occupazione tedesche, ma con un’etichetta di censura militare in italiano. Questo però lo lascio alla gioia di altri specialisti.

martedì 19 agosto 2014

Paesaggio senza persone

Tipico paesaggio polacco nela Galizia, nell’estate del 1936.

Questi quadri sono dalla pellicula di lingua yiddish Jidl mit’n fidl («Un piccolo ebreo con il violino», 1936, a vedere qui), fatta in coproduzione polacco-americana. I protagonisti che si vedono in essi sono Molly Picon, Simcha Fost, Leon Liebgold, Max Bozyk. Il film è stato diretto da Joseph Green.


Jidl mit’n fidl: A Heimisher Sherl. Alicia Svigals.



La vegetazione è la stessa ottant’anni dopo, nell’agosto 2014, nello stesso luogo, nel campo di sterminio di Belżec, Galizia.