sabato 13 settembre 2014

Incendi


Da molti anni non vive che un solo monaco a Treskavec C’è anche una fonte, uccelli, gatti senza dubbio, e il vuoto.
Il vuoto tutt’intorno, un vuoto immenso. Forse il monaco ci vede l’Infinito, ma per me c’era solo il vuoto, il sole, le pietre.
Un luogo tremendo.


Il monastero di Treskavec – Tрeскавец – è arroccato su queste pietre, vicino alla cima della montagna che domina la città di Prilep in Macedonia, su un piccolo altipiano di difficile accesso, vicino alla vetta del Monte Zlatovrv, alto 1280 metri.
Da lontano si vede solo un mucchio di rocce che formano una piramide sulla pianura arida. Chiediamo la strada da un passante e a un distributore di benzina, cerchiamo il grande cartello sulla destra, seguiamo la strada che costeggia il cimitero. La via passa poi attraverso i campi, una sorta di macchia, una steppa giallastra, e cerchiamo il monastero di cui ancora non sappiamo niente. Non si vede, non si sa, dove cercarlo, si perscruta, non si vede niente. Attraversiamo la pianura arida tra cannetti e piccoli alberi assetati, ed improvvisamente ci ritroviamo ai piedi della montagna. La montagna è lì davanti a noi, assolutamente ermetica, come una torre senza porta, ma la strada non si preoccupa per la montagna, non tiene conto della pendenza, ma sale in modo vertiginoso. Guidiamo ancora per chilometri, a volte quasi verticalmente, a quanto mi pare, e perdiamo la speranza di vedere il monastero, perché su queste rocce non c’è nulla. Nulla.

E poi all’improvviso si vede, è lì, o piuttosto no, siamo ancora lontani, dobbiamo continuare la salita a piedi. La pianura si estende davant ai nostri piedi.

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Prima, quando non c’era nessuna strada qui, si salì a piedi, o a cavallo, o a dorso di mulo. La gente di Prilep ci salì in occasioni particolari: qui, al monastero si incontrarono gli esnafs o corporazioni della città, prima del 1913, quando Prilep era ancora sotto il dominio ottomano. Hanno bei costumi e baffi turchi, ma possiamo immaginarci che erano buoni cristiani, se salirono fino a qui. Questi altri costumi e baffi sono molto diversi, bei serbi, o bei macedoni, non lo posso dire: queste sono le truppe di Prilep in partenza per il fronte nel 1916, quando, dopo le guerre balcaniche del 1912 e 1913, la città apparteneva già al regno di Serbia.



Già nell’antichità esisteva qui un tempio di Apollo e Artemide, le cui fondamenta sono ancora visibili. Fin dai primi secoli del cristianesimo, dal quinto o sesto secolo, c’era qui anche una chiesa, ma il monastero fu costruito solo agli inizi del XIV° secolo dal re serbo Stefan Uroš II Milutin. Su questo sito spettacolare, la roccia di Prilep, fu fondata pochi decenni più tardi anche una fortezza, le torri del re Marko Kraljević.

Il monastero nel 1898

Il monastero prima dell’incendio del 2013, quando era completamente restaurato nel 2008 (Wikipedia Commons)

Il monastero, che durante il XIX° secolo ripetutamente cadde vittima agli incendi, fu compromesso dalle intemperie, e privato dei suoi monaci nel 2005, durante il conflitto fra le chiese ortodosse serba e macedone, è stato restaurato nel 2008, quando la nuova strada ha facilitato l’accesso al sito. Purtroppo nel febbraio 2013 un altro incendio, partito da una stufa difettosa, ha distrutto tutti i konak, i tradizionali edifici residenziali nei monasteri serbi, e il patrimonio culturale è oggi più minacciato che mai durante la sua storia.

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Stare di fronte a queste rovine, anche se conosco l’origine tanto stupido e banale della sua distruzione, è come un riassunto di tutto ciò che era doloroso in questo viaggio, come un’immagine metaforica di tutte queste guerre balcaniche,
dei territori spopolati,
delle case bruciate in Kosovo,
delle moschee bruciate a Prilep,
degli alberi morti, secchi,
dei campi minati ancora qua e là,
delle storie di abbandono, fuga ed esilio,
delle paure tanto sensibili,
degli odi e scismi,
delle chiese rivali,
delle frontiere chiuse davanti a questi o quelli, fra la Grecia, Macedonia e Serbia,
dei monumenti costruiti ai due lati delle frontiere tanto fragili, nelle due metà delle vallate, le chiese e moschee, le cui campane e altoparlanti invadono lo spazio sonoro dell’altra, e che sono osservate e guardate,
dei nazionalismi,
dei cartelli bilingue o trilingue, dove i nomi di luoghi vengono furiosamente cancellati, perché sono scritti nella lingua odiata,
dei manifesti in onore di persone che altrove sono riguardate criminali,
delle ferite ancora fresche.

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