sabato 27 settembre 2025

Circo brutalista in Albania

Ho scoperto per la prima volta il Cirku in una foto su un sito italiano di urbex. Come spesso accade in questi spazi virtuali, non c’erano spiegazioni: solo una didascalia, “Circo brutalista in Albania.” Non ci è voluto molto per capire che quel colosso di cemento si trova a Patos, nel sud del paese, a pochi chilometri dalle rovine dell’antica Apollonia. E poiché il nostro viaggio in Albania passava proprio di lì, decidemmo di fare una sosta.

Patos è la capitale petrolifera albanese, costruita sopra il giacimento di Patos-Marinëz, scoperto nel 1928: la più grande riserva onshore d’Europa. Avvicinandoci alla città, il paesaggio era punteggiato di piccoli cavalletti pompanti e di enormi serbatoi arrugginiti; l’aria impregnata del forte odore del greggio.

In centro nulla lascia immaginare la presenza del gigantesco circo. Per fortuna, avevo già setacciato le strade su Google Views alla ricerca della sua inconfondibile sagoma grigia e poligonale, finché non l’avevo individuata nascosta in una laterale, Rruga Çamëria.

Ed eccolo lì. Dopo poche centinaia di metri, la strada si biforca: un ramo curva ad arco intorno all’enorme scheletro in cemento armato del Cirku.

La struttura poligonale è scandita da grandi finestre reticolari in cemento, attraverso cui si intravedono alberi di fico che crescono rigogliosi all’interno. Dal tetto si apre un lucernario circolare, sorretto da travi metalliche che reggono una copertura a stella piegata come una fisarmonica. Sul lato superiore si trova un basso ex-atrio d’ingresso, mentre il lato inferiore, in pendenza, è sorretto da poderosi pilastri di cemento armato.

Il Cirku fu voluto alla fine degli anni Ottanta dal regime comunista, nel tentativo di risollevare il morale della popolazione in un’epoca di crisi economica e malcontento sociale. La scelta di Patos non fu casuale: oltre al ruolo di capitale petrolifera, era anche la città natale dei celebri fratelli circensi Arnold e Artan Balla. Ma il regime crollò prima che i lavori fossero ultimati. Il Cirku non aprì mai e, decenni dopo, rimane un relitto in rovina.

Di recente un’emittente televisiva albanese ha girato un video sul circo, ora su YouTube: immagini spettacolari, commento solo in albanese. I sottotitoli in inglese sono in preparazione.

Accanto al Cirku sorge un altro edificio monumentale, rettangolare, con il piano superiore aggettante sorretto da pilastri in cemento. Sembrerebbe un tempo collegato al progetto del circo. Salendo di qualche gradino sulla scala esterna, intravediamo all’interno il club dei pensionati. Uomini intenti a scacchi e domino ci salutano con calore, ma l’ingresso vero e proprio è dall’altro lato.

Dal piano terra esce una donna bionda: la direttrice del club giovanile ospitato nell’edificio. Ci racconta che, ai tempi del boom petrolifero socialista, qui pulsava il cuore culturale della città: grande auditorium e cinema, biblioteca, sale per circoli e laboratori. Patos era un centro intellettuale, popolato da ingegneri stranieri – “qui vivevano anche russi e polacchi” – e insegnanti, con una vita culturale intensa.

Poi, con la fine del socialismo, arrivò il declino. L’industria petrolifera passò in mani straniere, l’élite locale si dissolse. Metà del centro culturale, inclusa la biblioteca, fu privatizzata: nessuno sa che fine abbiano fatto i libri. Oggi la direttrice e pochi colleghi portano avanti attività per una cinquantina di bambini con ammirevole dedizione. Ci accompagna in visita: sala di disegno, musica, danza con guardaroba, cucito. “Abbiamo appena fatto uno spettacolo sul palco principale,” racconta mostrandoci sul telefono le foto di ballerini in costume tradizionale.

Il palco principale si raggiunge dal lato opposto, salendo due piani dall’ingresso principale. Le pareti sono tappezzate di pannelli fotografici che rievocano l’industria petrolifera e la sua vita culturale. I colleghi ci accolgono sorridenti, ci stringono la mano, visibilmente felici della nostra presenza.

La sala stessa è un cinema ormai spento, ma con un palcoscenico vastissimo e quinte di tende che permettono giochi di profondità.

Dal tetto ammiriamo dall’alto il Cirku e il cortile interno con fontana di cemento non funzionante e panchine tutt’intorno: l’ingresso del club dei pensionati.

Qui ci raggiunge il fotografo comunale, chiedendo di scattare una foto di gruppo per la pubblicazione cittadina. Non capita spesso che curiosi forestieri vengano a visitare Patos.

Di ritorno nel centro culturale sbirciamo in un’aula: una classe di bambini impara canti popolari albanesi da anziani lavoratori del petrolio. Un ragazzino recita i versi di una ballata, gli anziani intonano il ritornello trillato.

A guidarli è un’insegnante energica, quasi un cane da pastore, che ci ricorda le nostre buone maestre elementari. Fa cantare ai bambini un brano di benvenuto per noi, fiera della loro esibizione. Quando cerco di fotografarli, spinge avanti i ragazzi e scompare dietro di loro.

Ringraziamo di cuore lei e la direttrice per il lavoro straordinario che svolgono con i giovani di questa città petrolifera dimenticata. È evidente quanto significhi per i bambini. Se un giorno riusciranno a uscire da questo contesto, sarà in gran parte grazie a queste guide.

Lasciamo Patos con il cuore leggero. Eravamo venuti a cercare il degrado – e invece abbiamo trovato la vita.

venerdì 26 settembre 2025

Statue erranti a Tirana

Lo spettro del comunismo si aggira per Tirana sotto forma di statue spaesate, che non trovano più la loro collocazione.

Prima del crollo del socialismo, le monumentali statue di bronzo di Stalin e Lenin dominavano due delle piazze principali della capitale. Quella di Stalin sorgeva nella piazza centrale, sul basamento dove oggi campeggia l’eroico Skanderbeg. (Ho già scritto, con il titolo «Ma la pietra rimane», dell’importanza che i basamenti dei monumenti del vecchio regime ebbero come fondamenta “ready-made” per le statue del nuovo potere). Quella di Lenin, invece, si trovava poco più a sud, sul viale Dëshmorët e Kombit, “dei Martiri del Popolo”.

Con la caduta del regime, i manifestanti del 1991 le rovesciarono dai piedistalli. Ma, a differenza di Budapest nel 1956, non pensarono a farle a pezzi. I leader letteralmente abbattuti trovarono così rifugio nel cortile dell’Accademia di Belle Arti, all’ombra dell’ex palazzo reale, proprio di fronte alla piramide costruita come mausoleo di Enver Hoxha. Lì trascorsero i turbolenti decenni della democrazia albanese, quasi in attesa che il culto della personalità tornasse in auge. Non erano sotto gli occhi di tutti, ma chi sapeva della loro presenza poteva entrare e fotografarli liberamente.

Un’altra grande statua di Stalin, immortalata sul lato destro di una fotografia, non era nel cuore cittadino ma comunque in posizione di rilievo: davanti al municipio del quartiere Kombinat, polo industriale e sede delle grandi fabbriche tessili.

Poi arrivò la pandemia, e sotto il suo silenzioso mantello molte cose cambiarono anche a Tirana. Dopo cinque anni volli rivedere il cortile, ma lo spettacolo che mi accolse fu simile a quello di Boka nei Ragazzi della via Pál: una nuova struttura in cemento svettava sul terreno, e delle statue nessuna traccia. Chiesi a un poliziotto di guardia di fronte all’ingresso; al sentire quei nomi, però, il suo volto si irrigidì e, in un inglese stentato, disse di non sapere l’inglese.

Vicino al bunker di cemento dedicato alle vittime del comunismo, una guida improvvisata spiegava ai turisti italiani. Fu lui a indicarmi, con disinvoltura, la strada per la villa di Mehmet Shehu.

Shehu, figlio di mullah trasformato in rivoluzionario ardente, volontario nella guerra civile spagnola e fervente stalinista, si guadagnò la fiducia di Hoxha come comandante dell’esercito popolare albanese, epurando senza esitazioni i ranghi. Dopo la purga del ministro degli Interni Koçi Xoxe, Hoxha gli affidò quel posto vacante. Per tutta la vita Shehu rimase il numero due, fedele e intransigente. In visita a Mosca, alla domanda di Krusciov su quale fosse il crimine più grande di Stalin, rispose senza esitazioni: «Il fatto di non avervi eliminato in tempo». Fu lui, inoltre, a stringere l’alleanza tra le ultime due roccaforti dello stalinismo: Cina e Albania.

Ma Shehu non arrivò fino alla fine del regime. Il 17 dicembre 1981 fu trovato morto nella sua villa, con un colpo di pistola al petto. La versione ufficiale parlò di suicidio. Poco dopo furono arrestati il fratello, la moglie, il figlio e le due figlie: morirono tutti in carcere negli anni Ottanta. Solo il figlio minore, Bashkim, sopravvisse. Dopo il 1991 cercò di riabilitare la memoria del padre, sostenendo che fu vittima di un assassinio politico. E lo disse apertamente in televisione. Come in ogni leggenda, dietro c’era una donna: il fratello di Shehu si era innamorato di una ragazza “scomoda”, con parenti negli Stati Uniti e altri nelle carceri albanesi. Il capo della famigerata Sigurimi chiese a Shehu di dissuadere il fratello; lui rispose soltanto: «È giovane. Lasciatelo amare».

A rafforzare la versione di Bashkim, poco dopo la sua morte, Shehu divenne improvvisamente un “abile spione” jugoslavo, americano e russo. Hoxha ne scrisse senza mezzi termini nel suo libro del 1982 I titisti, dedicando interi capitoli alla sua presunta doppiezza.

Sul crollo e la morte di Shehu, molti anni dopo, Ismail Kadare scrisse Il successore (Pasardhësi), considerato forse il suo capolavoro.

Ed è proprio nel giardino della sua villa che Stalin e Lenin hanno trovato la loro ultima dimora. All’inizio del vialetto, un cartello proibisce l’accesso, e un guardiano armato rafforza l’avvertimento con gesti inequivocabili. Dicono che oggi la villa sia usata dal governo per eventi ufficiali. In ogni caso, abbiamo visto uscire una berlina blindata nera, salutata militarmente dal guardiano. Forse lì dentro opera ancora la polizia segreta? Non stonerebbe con lo spirito delle statue.

Anche senza avvicinarsi al cancello, dal parco accanto si possono fotografare la villa e le statue. Tra gli alberi si distingue chiaramente la testa di Lenin; subito oltre il cancello svetta Stalin, davanti all’inquietante auto nera della Sigurimi, una UAZ sovietica oggi d’epoca. Chissà se ancora la usano per andare a prendere i vecchi comunisti, per metterli subito “in atmosfera”.

Il regime, però, ha imparato qualcosa: per giustificare la presenza delle statue ha preso in prestito un argomento dall’opposizione. Le statue, dicono, sono installazioni artistiche. Un’argomentazione curiosa in un’epoca in cui l’arte è sempre più interattiva, fatta non solo dalla mano dell’artista ma anche dallo sguardo del pubblico. Qui, nascoste nel giardino della villa e tenuti lontani gli spettatori dalle forze dell’ordine, rispondono piuttosto a una definizione medievale dell’arte: basta che le veda Dio.

Non so se desidero quel mondo nuovo e bello che già si intravede, in cui questa installazione tornerà un giorno a mostrarsi alla luce del sole.