mercoledì 1 aprile 2015

Mussa Dagh: montagna della resistenza


Aprile 1915, cento anni fa. Cinquemila armeni, perseguitati dai turchi cercano rifugio sul massiccio del Mussa Dagh, a nord della baia d’Antiochia. Il brano che segue è tratto dal romanzo storico I quaranta giorni del Mussa Dagh (1933) di Franz Werfel, dove vengono narrate le vicende di questa resistenza armena durante il «Grande crimine», Medz Yeghern in armeno. In questo breve brano l’armeno Gabriele Bagradiàn è alle prese con i preparativi della difesa del Mussa Dagh, un’«isola» di salvezza per 5000 armeni. Vi è una ricerca della precisione in ogni gesto. Dal censimento degli armeni della regione, alla cartografia del territorio e di conseguenza l’analisi del monte stesso, essenziale per la difesa, nonostante le scarse risorse militari. Solo una attenta preparazione ed una profonda conoscenza del territorio, non dimentichiamo che sino al 1915 la regione era prevalentemente abitata da armeni, il piccolo gruppo di armeni è riuscito a sfuggire all’immane tragedia che si stava compiendo in quel momento.

«Al posto delle ore di lezione con Stefano, Samuele Avakiàn ricevette un nuovo lavoro di tutt’altro genere. Gabriele gli consegnò tutte le annotazioni sciolte, raccolte da lui nelle ultime settimane. Lo studente doveva coordinarle in diverse tabelle, in modo da formare un grande quadro statistico. Quale fosse lo scopo di questo lavoro, non fu rivelato ad Avakiàn.

Innanzi tutto si trattò di stabilire secondo determinati criteri la popolazione complessiva dei villaggi, da quello dei pizzi di Vakéf al sud, a quello delle api di Kebussijé al nord. I dati, che Bagradiàn aveva riportati dallo scrivano comunale di Yoghonolùk e dagli altri sei seniori, dovevano essere ordinati e riesaminati. Già il giorno dopo Avakiàn poté consegnare a Gabriele la seguente lista precisa. […]

In questo censimento era compresa anche la famiglia Bagradiàn con la servitù. Ma oltre a queste liste sommarie ne furono redatte anche di più minuziose, secondo il numero di famiglie dei singoli villaggi, secondo la professione e la occupazione, insomma da tutti i punti di vista importanti.

Ma non si trattava soltanto degli uomini. Gabriele aveva cercato di stabilire anche il numero del bestiame del distretto. Non era stata un’impresa facile e non era riuscita che in minima parte, poiché neppure i mukhtàr avevano esatte informazioni in proposito. Una cosa era sicura. Bestiame grosso, buoi e cavalli non ce n’erano. Ogni famiglia in buone condizioni possedeva invece qualche capra e un asino o un mulo per il trasporto dei carichi e per cavalcare. I grandi greggi di pecore dei singoli allevatori di bestiame o dei comuni venivano mandati, secondo l’uso del popolo montanaro, sulle pasture e sulle alte praterie solitarie, dove rimanevano da una tosatura all’altra sotto la sorveglianza di pastori e di piccoli guardiani. Stabilire anche solo approssimativamente il numero dei capi che costituivano questi greggi si dimostrò impossibile.

Lo zelante Avakiàn, per il quale ogni genere di lavoro era benvenuto, correva attivamente in giro per il villaggi e aveva già impiantato nello studio di Bagradiàn un vero e proprio studio di catasto. Di nascosto però alzava le spalle su questi giochi di pazienza escogitati da un uomo facoltoso per occupare laboriosamente un periodo d’attesa tutt’altro che sicuro. A quel viziato pedante di un Bagradiàn, che probabilmente aveva un testa di scrivere un’opera sulla vita del popolo del Mussa Dagh, nulla appariva troppo secondario per non essere annotato. Egli voleva sapere quanti tonìr - sono madie murate nella terra - si trovassero nel villaggio. S’informava del raccolto del grano ed appariva preoccupato che gli abitanti della montagna facessero venire il granoturco ed il rossiccio grano siriaco dai maomettani della pianura. Non poco pensiero gli dava visibilmente il fatto che né a Yoghonolùk né a Bitias né altrove funzionasse un mulino armeno. Osò recarsi perfino da farmacista Krikòr, per informarsi dei medicinali che aveva in magazzino. Krikòr, il quale si era aspettato una visita alla sua biblioteca e non alla sua farmacia, indicò con un gesto deluso tutto intorno alla bottega. Su due piccole file di assi stavano vasi e vasetti di ogni genere, sui quali erano dipinti caratteri strani. Questo era tutto ciò che poteva far pensare ad una farmacia. Tre grandi latte di petrolio nell’angolo un sacco di sale, un paio di balle di tabacco da cibùk e una partita di scope indicavano la parte più viva dell’azienda. Krikòr batté il suo indice nodoso su uno dei mistici vasi, e disse con sussiego:

– Tutti i rimedi risalgono, come dice già Giovanni Crisostomo, a sette elementi fondamentali, calce, zolfo, salnitro, iodio, papavero, resina di salcio e succo di lauro. In cento forme è sempre la stessa cosa. - Fece risonare dolcemente il vasetto, per mostrare che era provvisto di queste sostanze farmaceutiche fondamentali di Giovanni Crisostomo. Dopo un simile ammaestramento nella farmaceutica contemporanea, Gabriele non indagò oltre. Per fortuna possedeva egli stesso una farmacia domestica assai ben fornita.

Ma più importante di tutto il resto era senza dubbio la questione delle armi. L’amico Ciausch Nurhàn aveva già fatto oscure allusioni in proposito. Ma appena Gabriele interpellava su tal questione i diversi seniori dei comuni, questi se la svignavano. Un giorno però egli sorprese il mukhtàr Kebussiàn di Yoghonolùk nel suo salotto e lo trattenne:

– Sii sincero con me, Tomaso Kebussiàn! Quanti fucili e che sorta di fucili possedete?

Il mukhtàr cominciò a guardare terribilmente losco e a dondolare la sua testa calva:

– Gesù Cristo! Vuoi precipitarci nella rovina, Effendì?

– Perché proprio io non sono degno della vostra fiducia?

– Mia moglie non lo sa, i miei figli non lo sanno, neppure i maestri lo sanno. Nessuno!

– Mio fratello Avetìs lo sapeva?

– Tuo fratello Avetìs, pace all’anima sua, lo sapeva. Ma egli non parlava ad anima viva.

– Ho io l’apparenza di non saper tacere?

– Se la cosa viene fuori, siamo tutti uccisi.

Ma poiché Kebussiàn, ad onta del suo parlar losco e del suo dondolar la testa, non poteva sfuggire all’ospite, finì per chiudere a doppio giro di chiave la porta della stanza. Con un fil di voce e tremando di paura, confessò la verità. Nell’anno 1908, quando Ittihàd era passato alla rivoluzione contro Abdùl Hamìd, gli emissari dei Giovani Turchi avevano fornito di armi tutti i distretti e i comuni dell’imper; fra cui specialmente gli armeni, che erano scelti come principale sostegno di quella sommossa. Enver Pascià naturalmente sapeva questo ed appena scoppiata la guerra mondiale si era affrettato a ordinare l’immediato disarmo della popolazione civile armena. Si capisce che l’applicazione di questo decreto variasse a seconda del carattere e dei sentimenti dei funzionari governativi in carica. Se nei vilaiét governavano le teste calde degli Ittihàd di provinciam come in Erzerùm o Sivàs, poteva avvenire che gente priva di armi comprasse fucili dai gendarmi, solo per poterli riconsegnare secondo l’ordine del governo. In tali località infatti il non possedere armi equivaleva a rifiutarsi di consegnarle mediante astuti sotterfugi.

Nel vilaiét di Gelàl Bey le cose andarono, come si può immaginare, molto più comodamente. L’eccellente governatore, la cui umanità si ribellava ai provvedimenti dello splendido dio della guerra di Stambul, quando non poteva far scomparire del tutto simili ordini nel cestino della carta straccia, li eseguiva con grande moderazione. Questa mitezza si rispecchiò poi nel contegno della maggior parte dei sottoreggenti, ad eccezione dell’accanito Mutessarìf di Maràsch. Anche a Yoghonolùk il Müdir dai capelli rossi era comparso in una giornata di gennaio insieme col capitano di polizia di Antiochia per la questione della consegna delle armi e, avute sorridenti assicurazioni lì che non erano mai stati ricevuti fucili, se n’era tranquillamente ripartito. Per fortuna il mukhtàr a suo tempo non aveva effettivamente rilasciato alcuna ricevuta al nesso del Comitato.

– Benissimo – approvò Gabriele, – e valgono qualcosa codesti fucili?

– Cinquanta fucili Mauser e duecentocinquata fucili karà, greci Per ciascuno trenta caricatori, quindi centocinquanta tiri. Gabriele Bagradiàn meditò fra sé. Era una quantità davvero trascurabile. Ma gli abitanti non possedevano altre armi da fuoco? Kebussiàn esitò di nuovo:

– Questo è affar loro. A caccia ci vanno molti. Ma che valore hanno poche centinaia di vecchi schioppi col meccanismo della pietra focaia?

Gabriele si alzò e porse la mano al mukhtàr:

– Ti ringrazio, Tomaso Kebussiàn, della tua fiducia! Ma ora che mi hai detto tutto, vorrei ancora sapere dove avete messo codesta roba.

– Devi proprio saperlo Effendì?

– No! Ma sono curioso e non vedo perché tu mi voglia tacere quest’ultima cosa.

Il mukhtàr si torceva in una lotta intima. Quest’ultima cosa, all’infuori dei suoi colleghi, di Ter Haigazùn e del custode, non la sapeva proprio anima viva. Ma in Gabriele c’era una forza, a cui Kebussiàn non poteva resistere. Perciò dopo disperati scongiuri rivelò il suo segreto. Le casse dei fucili e delle munizioni erano sepolte nel cimitero di Yoghonolùk in tombe regolari, che portavano nomi inventati:

– Ecco, ora ho messo la mia vita nelle tue mani, Effendì – sospirò il mukhtàr, mentre apriva la porta per lasciar uscire l’ospite. Ma questi disse senza più voltarsi:

– Forse ce l’hai messa davvero, Tomaso Kebussiàn!

Pensieri, di cui egli stesso si spaventava, occupavano incessantemente lo spirito di Bagradiàn; lo agitavano con tanta forza, ch’egli non riusciva a liberarsene in nessun’ora del giorno e della notte. E questi pensieri, non ostante l’attività pedantesca delle indagini, erano immersi in una specie di atmosfera di sogni, come tutta la vita in piedi dell’alpe verde Gabriele non vedeva dinanzi a sé che un inizio, il crocicchio dove le vie si dividevano. Cinque passi più avanti tutta era nebbia e tenebra. Ma avviene in ogni vita così: prima della decisione nulla è più irreale che la mèta.

E nondimeno era comprensibile che Gabriele, con tutta la sua eccitata energia, si muovesse solo in quella valle angusta ed evitasse ogni scappatoia, forse anche aperta? Dove era la voce che diceva:

Perché esiti Bagradiàn? Perché lasci passare un giorno dopo l’altro? Hai un buon nome, hai un patrimonio. Getta l’uno e l’altro sul piatto della bilancia! Se anche ti si presentano pericoli e le più gravi difficoltà, tenta tuttavia di farti strada con Giulietta e Stefano fino ad Aleppo. Aleppo in fin dei conti è una grande città. Là hai relazioni. Puoi metter per lo meno la moglie e il figlio sotto la tutela del console. E’ vero che dappertutto i notabili sono stati arrestati, deportati, torturati, impiccati. Senza dubbio il viaggio è un rischio terribile. Ma è un rischio minore rimanere? Non aspettare più a lungo, fa un tentativo di salvezza, prima che sia troppo tardi.

Non sempre questa voce taceva. Ma sonava velata. Il Mussa Dagh conservava la sua pace. Nulla si mutava. Il mondo lì pareva dar ragione all’Agha Rifaàt Berekèt. Non un soffio degli avvenimenti penetrava nella valle. La terra natìa, che a Bagradiàn talvolta appariva ancora come una remota leggenda d’infanzia, lo assorbiva invece profondamente. Giulietta perdeva per lui di chiarezza. Anche s’egli avesse voluto, forse non sarebbe più riuscito a liberarsi dal Mussa Dagh.

Gabriele mantenne fedelmente la sua solenne promessa di tacere sulla questione delle armi. Anche Avakiàn non ne udì una parola. Invece ricevette a un tratto nuovi incarichi. Fu nominato cartografo. Quello schizzo del Damlagìk, che Stefano già in marzo aveva iniziato per desiderio del padre, a tratti inesperti, acquistò importanza. Avakiàn doveva tracciare di tutta la montagna una carta esattissima su grande scala, in tre esemplari. «La valle con gli uomini e il bestiame è esaurita» pensò lo studente, «ora è la volta della configurazione della montagna.»

Il Damlagìk è, come si sa, il vero nucleo del Mussa Dagh. Mentre il massicio montuoso si sparpaglia a nord in parecchie braccia, che si perdono verso la valle di Beilan, svagate in sognanti rocche e terrazze naturali, mentre a sud precipita disordinato e quasi incompiuto nella pianura dove sfocia l’Oronte, nel centro sotto il nome di Damlagìk esso raccoglie tutta la sua forza e la sua attenzione. Qui si tira sul petto con forti pugni di roccia la valle dei sette villaggi come una coperta drappeggiata. Qui si elevano anche abbastanza a perpendicolo sopra Yoghonolùk e Hagì Habiblì le sue due cime più alte, gli unici punti senz’alberi, coperti da prati dall’erba breve. Il dorso del Damlagìk forma un altipiano alquanto spazioso; nel punto più vasto, fra la discesa della gola dei lecci e le pareti dirupate della costa, la linea d’aria raggiunge (secondo il calcolo di Avakiàn) più di tre chilometri. Ma ciò che più richiamava l’attenzione di Gabriele erano i confini singolarmente netti, posti dalla natura a questa superficie montuosa. Innanzi tutto l’incurvatura a nord, un passo angusto e una sella stretta, a cui conduceva dalla valle una vecchia mulattiera, che però si estingueva fra la sterpaglia, perché qui non c’era alcuna possibilità di arrivare al mare per la parete di roccia. A sud invece, dove il monte si troncava, s’innalzava sopra un incolto, quasi brullo semicerchio di balze sassose una torre di roccia massiccia, dell’altezza di cinquanta piedi. Da questo bastione naturale lo sguardo dominava una parte del mare e tutta la pianura dell’Oronte coi suoi villaggi turchi fin oltre le cime del nudo Gebèl Akrà. Si vedevano le imponenti rovine del tempio e dell’acquedotto di Seleucia contorcersi nel groviglio dei verdi rampicanti, si vedeva ogni solco di carro sull’importante strada provinciale da Antiochia ad El Eskèl e a Suedia. I bianchi dadi di queste cittadine rilucevano e spiccava al asole la grande fabbrica di spirito sulla riva destra dell’Oronte, in prossimità del mare.

Ogni intelletto militare doveva subito essere colpito dall’ideale posizione di difesa del Damlagìk. Se si prescindeva dalla parte della valle, donde la salita all’alpe era così incomoda, faticosa e maltracciata da rendere esausti anche dei passeggiatori oziosi, c’era un unico reale punto d’attacco, la stretta sella del nord. Ma qui appunto la località offriva al difensore cento vantaggi, non ultimo la circostanza che i pendii senza boschi dell’incavatura, cosparsi di alberi nani, di bassi pinastri, di prunaie e di vegetazione selvatica d’ogni genere, costituivano ostacoli naturali di terreno insuperabili. L’attività cartografica di Avakiàn stentò molto a soddisfare Gabriele. Egli copriva continuamente nuove deficienze e nuovi errori. Lo studente temeva che la chimera del suo padrone si trasformasse a poco a poco in una manìa. Non intuiva ancora nulla. Essi passavano ormai giornate intere sul Damlagìk. Bagradiàn, l’ufficiale d’artiglieria della guerra balcanica, possedeva ancora cannocchiali da campagna, pertica per misurare il terreno, bussola e simili arnesi per la determinazione dell’area; tutto ciò ritornava in onore. Con zelo ostinato egli pretendeva che negli schizzi fosse segnato il corso di ogni sorgente, ogni albero alto, ogni grosso masso. Ma il lavoro non si limitava a tracciare linee rosse, verdi e azzurre; ad esse si aggiungevano strane parole e cifre.

Fra le alte cime e la sella settentrionale c’era un avvallamento molto grande e piano. Essendo coperto di magnifica erba, vi s’incontravano sempre le gregge di pecore bianche e nere, e i pastori, che simili a figure dell’antichità, avvolti nelle loro pellicce, d’inverno e d’estate passavano i giorni dormendo. Gabriele ed Avakiàn misurarono esattamente i confini del pascolo, contando i passi. Bagradiàn indicò due sorgive, che si facevano largo nel fitto delle felci al margine superiore del prato: - Questa è una gran fortuna - disse; - scriva sopra con la matita rossa: Conca della città.

Queste misteriose denominazioni non avevano fine. Gabriele parve cercare con particolar insistenza un punto, che scelse forse per la sua mite e fresca bellezza. Anch’esso era situato presso una fonte, ma più avanti verso il mare, dove fra l’altipiano e le pareti scoscese correva una cintura verde cupa di cespugli di mirto e di rododendro: - Faccia il rilievo di questo, Avakiàn, e scriva sopra con la matita rossa: «piazza delle Tre Tende».

Avakiàn non poté fare a meno di domandare:

– Che significa piazza delle Tre Tende?

Ma Gabriele era già andato avanti e non udì. «Devo aiutar un sognatore a sognare» pensò lo studente. Ma proprio il significato di quella piazza delle Tre Tende doveva essergli rivelato già due giorni dopo.»



La montagna di Mussa Dagh vista dal mare, e dalla terraferma con il villaggio di Yoghonolùk. Dal blog di Georg Pfarl, scritto sulla visita del sito nel 2011. Sotto: Mussa Dagh indicato con blu sulla carta dei massacri e deportazioni del 1915


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