martedì 11 novembre 2025

Le oche di San Martino

Se uno viaggia verso il confine austriaco l’11 novembre, giorno di San Martino, o addirittura lo oltrepassa dirigendosi verso la Baviera o la Boemia, lungo la strada i ristoranti lo tentano con manifesti di cene d’oca di San Martino, quasi sempre accompagnati da foto irresistibilmente appetitose. Sei o sette anni fa, preparando il mio pellegrinaggio in occasione del millesettecentesimo compleanno di San Martino — dal luogo natale di Szombathely fino alla sua tomba a Tours — anch’io mangiai e cucinai un’oca simile. Purtroppo le mie foto andarono perdute, e il libro che avrei voluto pubblicare per l’occasione non vide mai la luce. Se però qualcuno mi inviasse una bella foto di una cena d’oca di San Martino di stasera, la pubblicherei qui con piacere.

Il legame tra San Martino e le oche si fa risalire alla famosa leggenda secondo cui il monaco Martino, a Tours, si nascose in un’ocaia per sfuggire alla folla che voleva consacrarlo vescovo — ma le oche, con il loro starnazzare, lo tradirono. Il devoto di Martino, secoli dopo, sembra dunque vendicarsi di quel tradimento a tavola. È un sentimento magnifico: godere di una cena squisita e, allo stesso tempo, partecipare a un atto di giustizia divina — con un’anima più candida delle piume delle oche defunte.

Tuttavia, per chi colleziona leggende itineranti, quel gracchiare non suona affatto nuovo. Molti secoli prima, infatti, durante l’invasione dei Galli (390 a.C.), Tito Livio racconta che furono proprio le oche sacre del tempio di Giunone Capitolina ad avvertire i Romani, con il loro strepito, dell’attacco notturno dei nemici che cercavano di scalare di nascosto il Campidoglio. Grazie a loro, Roma fu salvata. Da allora, un’oca prese parte alle ronde notturne dei soldati romani, mentre i cani dormiglioni furono messi sotto processo — e il più pigro tra loro addirittura impiccato.

English Bestiary, 1230-40. MS Harley 4751 © British Library

L’oca, animale combattivo era pure simbolo di Marte, dio della guerra e figlio di Giunone. Non c’è da stupirsi, quindi, che sia stata associata anche a Martino, il cui nome latino Martinus significa appunto “di Marte”, figlio di un ufficiale romano.

Un’iconografia interessante, raramente notata, appare nel ciclo della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca nella chiesa di San Francesco ad Arezzo (1452–1466 ca.). Nelle due scene di battaglia, dove sovrani cristiani sconfiggono imperatori pagani — Massenzio (312, in alto) e Cosroe, re di Persia (612, in basso) — i nemici fuggono sotto stendardi mostruosi (draghi, teste di mori), mentre i cristiani combattono sotto simboli romani: l’aquila, il leone, la croce – e, guarda caso, l’oca.

Ma davvero bastano una leggenda popolare posticcia e un racconto errante dall’antichità per spiegare un’usanza così profondamente radicata?

Non sarà piuttosto che non furono le oche ad associarsi a Martino, ma Martino ad appropriarsi delle oche — per dare lustro al suo nome con una tradizione che esisteva già?

L’allevamento delle oche richiede molto lavoro: vanno sorvegliate, guidate, nutrite. A differenza di galline e piccioni, che d’inverno si arrangiano, le oche devono avere erba fresca. Come per i maiali, anch’essi esigenti in fatto di foraggio, prima dell’inverno si macellava tutto ciò che non serviva alla riproduzione primaverile. La data ultima per la macellazione era proprio l’11 novembre. Perché?

Nell’Europa cattolica, fino al Concilio Vaticano II (1962–65), il Natale era preceduto da un quaresimale di quaranta giorni, esattamente come la Pasqua. È per questo che in molte famiglie cattoliche la vigilia di Natale — ancora giorno di digiuno — si mangia pesce, mentre i protestanti preferiscono il tacchino. Quel periodo di astinenza cominciava appunto dopo l’11 novembre: San Martino era quindi l’ultima occasione di bagordi prima dell’Avvento, come il martedì grasso lo è prima della Quaresima.

Pieter Baltens: Fiera di San Martino, seconda metà del XVI secolo, Rijksmuseum

La sera di San Martino, anche nei paesi protestanti come la Gran Bretagna e la Germania, sopravvivono tradizioni antiche come la Martinmas o Martinmesse, con le processioni di lanterne che illuminano la notte imminente dell’Avvento, simbolo delle tenebre prima della nascita di Cristo.

This little light of mine. Martinmas lantern walk

L’11 novembre, dunque, era già il giorno del grande banchetto e delle luci prima dell’Avvento. Ma perché proprio in quella data si celebra anche la festa di San Martino?

Di solito la festa di un santo coincide con il giorno della sua morte — la sua “nascita al cielo”. Martino morì l’8 novembre. Allora perché festeggiarlo l’11?

Da vescovo di Tours, Martino aveva introdotto la visitatio canonica, cioè l’ispezione annuale delle parrocchie. Durante una di queste visite, nel 397, morì in un villaggio sulle rive della Loira, oggi chiamato Candes-Saint-Martin proprio in suo onore. Gli abitanti vollero trattenere il corpo del santo, ma anche i cittadini di Tours lo reclamarono. Alla fine, marinai di Tours arrivarono di notte, trafugarono il corpo e lo portarono via. Se non avessi perso le mie foto, potrei mostrarvi oggi come questo episodio sia raffigurato nelle vetrate gotiche della chiesa parrocchiale di Candes-Saint-Martin. Poi, risalendo la Loira, trasportarono il corpo fino a Tours, dove una folla immensa lo accolse per deporlo nella tomba già pronta.

Tutto ciò avvenne l’11 novembre. Contro l’usanza, non fu il giorno della morte ma quello della sepoltura a diventare la sua festa.

È difficile non pensare che ciò avvenne perché l’11 novembre era già una data importante, segnata dai banchetti prima del digiuno, e non aspettava altro che essere “battezzata” con un nome cristiano — quello di Martino.

San Martino, in fondo, seppe ottenere tutto dalla vita. Fu soldato e poi monaco, fondò il primo monastero d’Europa, e come vescovo diede il primo esempio di un’organizzazione diocesana. Ma la sua grandezza derivò anche dal fatto che seppe morire al momento giusto — o quasi. E se non proprio al momento giusto, almeno con buoni amici che seppero rimediare. Le oche, probabilmente, non erano tra questi amici. Ma, se dev’essere, anche per un’oca è meglio morire in nome di San Martino — come per un maiale, in nome di Sant’Antonio.

* * *

Epilogo. Gli ebrei, com’è ovvio, non festeggiano San Martino. Eppure, l’oca di San Martino fa parte anche delle tradizioni ebraiche ungheresi.

Fino al 1840, agli ebrei non era concesso il diritto di residenza nelle città libere del regno d’Ungheria. Di questo si occupava la borghesia cristiana, che vedeva negli ebrei dei pericolosi concorrenti. C’era però un’eccezione: Pozsony (oggi Bratislava). Qui furono gli stessi re asburgici a concedere personalmente il diritto di residenza agli ebrei — proprio di fronte alla cattedrale di San Martino. Per questo, ogni anno nel giorno di San Martino, la comunità ebraica di Pozsony offriva alla corte di Vienna un’oca ben ingrassata, macellata secondo il rito e arrostita alla perfezione, servita su un vassoio d’argento. Il tutto veniva portato a piedi, per evitare che le scosse del carro danneggiassero il pregiato volatile. Di questa consuetudine si parla sia nel capitolo dedicato a San Martino nel Ünnepi kalendárium di Sándor Bálint, sia nel brillante blog Kötődések di Norbert Glässer, anch’egli di Szeged, da cui proviene il seguente collage di articoli del 1942.

L’usanza sopravvisse finché ci furono Asburgo a Vienna, a cui portare l’oca. A dimostrazione di quanto fosse conosciuta, basta citare il numero del 13 novembre 1918 del giornale satirico Borsszem Jankó. Uscì appena due giorni dopo la firma dell’armistizio generale dell’11 novembre — proprio il giorno di San Martino — quando gli imperi sconfitti si erano già trasformati in repubbliche. Senza bisogno di alcun commento, confidando che i lettori comprendessero il riferimento, la rivista poteva permettersi di chiedere:

“Chissà dove avranno portato quest’anno gli ebrei di Pozsony le loro oche di San Martino?”

La didascalia ungherese, che parafrasa il “mene tekel upharsin” biblico (Dan 5, significato originale: “Dio ha contato, pesato e diviso il re”), significa: “andate affan…lo!”

domenica 9 novembre 2025

Vecchia gloria

Il 7 novembre è un giorno di gloria. Lo sa bene chiunque, prima del 1990, veniva ancora ricordato di questo durante le cerimonie scolastiche, o chi ha dovuto attraversare la piazza intitolata a quella data per dirigersi verso Buda o il Parco della Città. Ma che diventasse un giorno di gloria anche per l’Iran? Questa è una novità assoluta, fresca fresca, proprio di ieri.

Recentemente, il rapporto dell’Iran con la gloria si era raffreddato. Segnali c’erano già stati nel passato recente e anche remoto, risalendo fino alla battaglia di Kerbala nel 680, dove gli sciiti subirono la loro più grande sconfitta, commemorata ogni anno durante l’Ashura come la loro festa più importante. Si potrebbe dire che la loro psicologia sociale è ritualizzata per accettare la sconfitta. Tuttavia, anche tra questa serie di battute d’arresto, vi è stato un punto particolarmente basso: a giugno di quest’anno, gli eserciti israeliano e statunitense hanno, in pochi istanti, distrutto con pesanti bombardamenti le difese aeree iraniane e le loro installazioni nucleari.

Il regime iraniano, che ha valutato questa sconfitta con acuta percezione come un fallimento totale e una messa in discussione del proprio funzionamento di mezzo secolo, ha dato ieri una risposta clamorosa all’Occidente. È vero, per farlo ha dovuto risalire nel tempo fino all’ultima vittoria misurabile: Shapur II, lo scià sasanide, che nel 260 trionfò a Edessa sull’imperatore romano Valeriano. L’imperatore e il suo esercito scomparvero senza lasciare traccia nell’impero persiano, e Shapur decorò la sua tomba di roccia vicino a Persepoli con la rappresentazione di quella vittoria: nel rilievo, l’imperatore sconfitto è inginocchiato davanti allo scià a cavallo, con il mantello sulla spalla che impasta la formula del pathos in modo inappropriato alla situazione.

A quanto pare, seguendo un’idea personale del grande ayatollah Khamenei, il regime iraniano ha fatto realizzare una versione scultorea di quel rilievo e l’ha inaugurata ieri, venerdì 7 novembre, nel cuore di Teheran, in Piazza Enghelab, cioè Piazza della Rivoluzione. Secondo la stampa iraniana, la statua è un serio avvertimento all’Occidente. La folla ha applaudito l’inaugurazione, anche perché la cerimonia è stata accompagnata da un concerto pop.

Due figure gigantesche—un guerriero sasanide e un guerriero persiano moderno—chiariscono il messaggio, con l’iscrizione sui loro scudi: مقابل ایرانیان دوباره زانو مزید moqâbel-e Irâniyân dobare zânû mizid “È di nuovo il momento di inginocchiarsi davanti agli iraniani.” Sebbene il messaggio fosse scritto in persiano, lingua per lo più sconosciuta in Occidente, i mari che circondano l’Iran sono indicati in inglese. Ciò suggerisce che i progettisti abbiano probabilmente scaricato anche la mappa del loro paese da un sito occidentale, una sorta di inginocchiamento, si potrebbe dire

L’Occidente probabilmente decodificherà il serio avvertimento e si spaventerà un po’. Ma il gesto ha un’altra sfumatura sottile che vale la pena decodificare. Finora, il regime aveva evitato rigidamente di esaltare la storia persiana pre-islamica: da un lato perché rappresentava la jahiliyyah, l’età dell’ignoranza precedente alla vera fede; dall’altro perché i sah Pahlavi, rovesciati dalla rivoluzione del 1979, avevano basato la propria legittimità proprio su quella storia. Forse per la prima volta, il regime centra la celebrazione su uno scià sasanide. E proprio nella piazza centrale, che prima si chiamava Piazza dello Shah. Significa forse che l’idea dell’islamismo è ormai esaurita e che il paese, come ogni stato di ideologia fallita, deve tornare al nazionalismo collaudato per rafforzare la propria legittimità?

Il tableau vivant monumentale allestito dallo Scià Reza Pahlavi nel 1971 a Persepoli per il 2.500° anniversario dell’Impero persiano è da tempo considerato banale, pomposo e meschino. La versione di Piazza Enghelab aggiunge a questa mediocrità una regia cinematografica davvero pessima.

Ma l’Iran non è stato il primo a dare l’esempio di sconfiggere la tigre di carta. Anche il cristianesimo ha subito una disfatta altrettanto devastante quando, nel 1453, i turchi conquistarono Costantinopoli, distruggendo autostima e senso di sicurezza. L’eco di quella sconfitta risuonò in Occidente, e in quell’occasione si commemorò una vittoria molto antica per ammonire i pagani nel ciclo di affreschi della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca nella chiesa francescana di Arezzo (1450-63). L’ultima scena del ciclo rappresenta Eraclio nel 628, nella battaglia di Ninive, che sconfigge lo scià persiano Cosroe II e riconquista la Vera Croce rubata a Gerusalemme. Lo scià è inginocchiato a terra tra i comandanti cristiani, che Piero aggiorna con abiti contemporanei invece delle toghe romane, come a dire: “Aspettate, musulmani! Così come vendicammo i pagani allora, prenderemo anche Costantinopoli ora.” I pagani aspettano ancora, forse ormai stanchi.

In entrambe le opere emerge la stessa tensione: passato glorioso e presente vergognoso, sollievo dell’impotenza e accensione della speranza attraverso un esempio storico. Ma sapete una cosa? Come dice la famosa battuta: la nostra è più bella.

venerdì 7 novembre 2025

Caccia alle spose tra i Miao

I Miao sono uno dei gruppi etnici più colorati della Cina. In parte perché, ufficialmente, con dieci milioni di persone, non sono un solo gruppo, ma almeno quaranta sottogruppi etnici distinti. Quando negli anni ’50 lo Stato cinese compilò l’elenco ufficiale delle etnie, qui, nelle montagne del sud-ovest, si trovò di fronte a così tanti piccoli gruppi etnici che, invece di mettersi a classificare minuziosamente ognuno, li inserì tutti nella categoria “Miao”. Dopotutto, i cinesi avevano già usato questo termine, originariamente dispregiativo, per secoli per indicare tutte le piccole tribù montane “barbare del sud”.

La stessa cosa accadde qui come nella valle del fiume Dadu, nel Tibet orientale, il cosiddetto “corridoio etnico”, dove, per semplicità, lo Stato cinese incluse tutti i piccoli gruppi sotto l’etnia tibetana, anche se essi non hanno un’identità tibetana e i tibetani non li riconoscono come propri.

Al sentir nominare i “Miao”, molti pensano: aha, vivono probabilmente sopra i Guau e un po’ più in basso i Chit-chit. La cosa curiosa è che non è uno scherzo: il nome ha effettivamente a che fare con il gatto. Il carattere cinese per Miao è 苗 miá), che rappresenta un campo 田 diviso in quattro parti con germogli 艹, e originariamente significava “germoglio” o “pianticella”. Il gruppo etnico ricevette questo stesso carattere per la somiglianza fonetica, mentre la tradizione cinese ci ha cercato di dare un senso retroattivo, sostenendo che i Miao furono il popolo agricolo più antico dell’attuale territorio cinese. Il carattere del gatto, 貓 māo, combina il radicale dell’“animale piccolo” a sinistra con l’elemento fonetico 苗 a destra: un “piccolo animale” chiamato miao/mao, probabilmente per il suono che emette. A quanto ne so, è l’unico nome di animale in cinese basato sull’onomatopea. Anche il dizionario più antico, lo Shuowen Jiezi (circa 100 a.C.), cerca di spiegarlo: 鼠善害苗。貓能捕鼠,故字从苗 — “Il topo distrugge il raccolto. Il gatto cattura il topo, quindi il carattere per ‘gatto’ deriva da 苗 ‘seme’.” Un’interpretazione un po’ forzata, simile al principio latino del lucus a non lucendo.

Il nome “Miao” comprende almeno quaranta gruppi etnici che parlano circa dodici lingue e quaranta dialetti. Poiché l’abbigliamento femminile Miao è estremamente colorato e ricco, i gruppi si distinguono principalmente in base al vestiario femminile. Nel villaggio di Langde, a Guangzhou, vivono i “Miao dalle camicie lunghe”.

Langde 郎德 — più precisamente Shanglangde 上郎德, Langde Superiore, perché Langde Inferiore, accanto alla strada principale, è ormai un insediamento moderno — è un piccolo villaggio di montagna sulle rive del fiume Bala, nella prefettura autonoma Miao e Dong di Qiangdongnan, ai piedi del monte Leigong, la cima più alta della catena Miaoling. Le case di tipo diàojiăolóu (吊脚楼 — case su palafitte con residenza ai piani superiori) si elevano a strati dalla riva del fiume fino al pendio.

Le case ai margini del villaggio formano una sorta di muro con porte che permettono l’accesso all’interno. Le case inferiori circondano una piazza principale quadrata, con la casa comunitaria da un lato — con tamburi, grandi gioielli simbolici Miao in argento e una mostra sulla storia locale — e piccoli negozi e ristoranti sugli altri lati. Un’altra piazza è occupata da un grande bacino d’acqua con un bufalo di pietra semi-sommerso: tradizionalmente qui si allevavano pesci poi rilasciati nei campi di riso, e funge anche da riserva idrica per la lotta agli incendi. Dalle due piazze partono strade ripide che salgono lungo il pendio, poi sentieri che portano ai margini del villaggio, offrendo bellissime viste sui tetti e sul fiume. Un ponte coperto di tipo dong attraversa il fiume: i dong lo chiamano ponte dei fiori, mentre i cinesi lo chiamano “ponte del vento e della pioggia”; non è però decorato finemente come gli originali dong.

Grazie al patrimonio architettonico intatto e alle ricche tradizioni musicali e rituali, il villaggio fu tra i primi a ricevere nel 2012 il titolo di “Villaggio Tradizionale Cinese”.

Il villaggio conta circa 1.600 abitanti, tutti Miao, che parlano il dialetto Hmu (2,3 milioni di parlanti) della lingua Hmong. Vivono in famiglie patri-lineari estese, praticano animismo e sciamanesimo, con culto della natura e degli antenati. Gli abitanti coltivano principalmente riso, ma molti giovani si trasferiscono in città grazie all’alto livello di istruzione. La maggior parte indossa ancora abiti tradizionali: gli uomini con tuniche lunghe indaco, le donne con abiti lunghi, anch’essi di base indaco, riccamente e coloratamente ricamati, adornati con numerosi gioielli in argento, tra cui pettorine a forma di testa di toro e enormi corone di argento con grandi corni a mezzaluna. Oggi non si trovano più gioielli in argento come questi, ma nei negozi del villaggio si possono ancora acquistare abiti tradizionali autentici, sia antichi che di nuova produzione.

In Cina è vietato sposarsi all’interno dello stesso clan. Per questo, se un piccolo villaggio di montagna è composto da un solo clan, come Langde, è necessario creare occasioni per far conoscere i giovani ad altri di villaggi vicini. Questa necessità ha dato origine ai festival di accoglienza Miao, che oggi si svolgono principalmente per preservare l’identità.

Tradizionalmente, ogni villaggio celebrava il “mercato delle fanciulle” in giorni diversi, dove i genitori accoglievano cerimonialmente i visitatori, li conducevano nella piazza principale e facevano danzare le ragazze. Sotto l’attento sguardo dei genitori, era possibile anche conversare in privato. Oggi, il villaggio continua questo rito, senza scopo matrimoniale, solo per piacere, preservazione dell’identità e intrattenimento dei turisti, soprattutto locali. Tuttavia, i partecipanti ricevono buoni convertibili in denaro, quindi partecipare al rituale comporta anche un piccolo incentivo economico.

La mattina del festival, verso le undici, il pendio davanti alla porta inferiore, con vista sul fiume e sulla strada che vi conduce, si riempie di abitanti vestiti con abiti tradizionali. Questi sono i loro veri costumi popolari, pezzi conservati a casa, e anche i numerosi gioielli in argento delle donne e le loro corone finemente lavorate sono autentici. Oggi non si trovano più gioielli in argento come questi, ma nei negozi del villaggio si possono ancora acquistare abiti tradizionali autentici, sia antichi sia di nuova produzione

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Lungo il percorso dal fiume alla porta vengono allestiti undici piccoli tavoli, ciascuno con due o tre donne anziane. Su ogni tavolo c’è una brocca di vino leggermente fruttato. Ai visitatori vengono offerte due coppe per tavolo e, al dodicesimo punto, una cornetta intera di vino, così che i ragazzi arrivino all’inizio dello spettacolo già di buon umore — e forse con il giudizio leggermente offuscato.

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Intanto, gli uomini, schierati in cima alla collina, iniziano a suonare i qeej (pronunciato kʰeing), strumenti di canna. Il qeej è lo strumento più diffuso tra gli Hmong. Non è solo musicale: codifica la lingua. I narratori Hmong possono raccontare storie solo con il qeej. Comunica anche con gli spiriti: guida le anime dei defunti, chiede consiglio agli antenati e la loro benedizione per il giorno della scelta del partner.

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Poi musicisti e donne entrano nella piazza principale, seguiti dagli ospiti.

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Gli invitati si siedono sulle scale della casa comunitaria, da dove osservano gli ospiti entrare nella piazza attraverso vari passaggi, eseguendo diversi balli.

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Il primo ballo è delle madri, come introduzione: “Guarda la madre, prendi la figlia”—meno per i ragazzi, più per i loro coetanei, che possono così giudicare quanto forte e agile sarà la futura partner dei loro figli quando i loro stessi figli saranno in età da matrimonio.

Il secondo ballo è delle giovani: è la presentazione della “merce”. Un ballo elegante, delicato e pieno di grazia. La musica cambia: mentre il ballo delle madri è accompagnato da musica tradizionale Miao, questo è accompagnato dal pop cinese moderno, la musica della loro generazione, lingua comune con i ragazzi spettatori.

Quest’anno è la terza volta che partecipo a questa festa, la terza volta che vedo lo stesso ordine di balli, ma ogni volta i balli sono diversi. Sembra che abbiano un repertorio ampio e ogni volta ne scelgano due diversi, così da non annoiarsi mai.

Tra un ballo e l’altro, una bambina esce da un negozio, danzando con gioia fino al gruppo delle ragazze più grandi, esercitandosi nel ruolo futuro che presto ricoprirà.

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Il terzo numero è il coro delle nonne, che dà il benvenuto agli ospiti e integra i balli precedenti nella tradizione.

Il quarto ballo è degli uomini, che entrano portando i qeej, comunicando con gli antenati e chiedendo la loro benedizione per il giorno della scelta.

Infine, tutti i gruppi precedenti entrano insieme nella piazza, circolando per esprimere coesione comunitaria. Gli spettatori si uniscono, così come in passato i ragazzi che potevano avvicinarsi alla propria scelta sotto lo sguardo dei genitori.

Cosa abbiamo visto? Un europeo cinico potrebbe pensare: solo uno spettacolo per turisti. Ma non dobbiamo darlo per scontato. È probabile che anche i cinesi amino le proprie tradizioni e le vivano per puro piacere, come gli abitanti della Transilvania nelle case da ballo. Gioia ed entusiasmo sono palpabili. Anche se arrivano turisti, anche con uno o due a gennaio, lo spettacolo si tiene. E lo farebbero anche senza turisti. I costumi sono autentici, usati anche quotidianamente; lo sono anche i balli. Nella musica c’è qualche nota di pop moderno, ma indica solo che la tradizione è viva. E il fatto che i partecipanti ricevano soldi dal comune non diminuisce l’autenticità del rituale. Quanto vorremmo che altrove, anche in Europa dell’Est, il potere sostenesse così la preservazione delle tradizioni e l’identità delle minoranze etniche attraverso la loro pratica.

venerdì 31 ottobre 2025

La taverna dei Dong e il re Miao

I cinesi non reggono bene l’alcol. Delle due enzimi responsabili della sua scomposizione, una è inattiva in gran parte della popolazione Han, per cui il processo si ferma a metà strada — all’acetaldeide, una sostanza altamente tossica. Ecco perché la maggior parte delle bevande alcoliche cinesi ha una gradazione bassa, e persino di quelle se ne beve poca quantità. Naturalmente, anche tra gli uomini cinesi non mancano le riunioni in cui si ostenta la propria “capacità di bere”, ma sempre entro limiti piuttosto modesti.

Ricordo il mio primo viaggio in Cina, a Capodanno del 1995: a Pechino faceva un freddo terribile. Il vento gelido che soffiava dal deserto era così crudele che solo le bottigliette di grappa mongola “Cavallo a Due Teste”, comprate in un negozio di periferia, riuscivano a salvarmi dal gelo di quei giorni. Al ritorno, in fila all’aeroporto, la sicurezza individuò un’ultimo sopravvissuto dimenticato nella tasca interna del cappotto e volle requisirlo. Ma come avrei potuto consegnare il mio amico, colui che mi aveva salvato la vita? Così svitai il tappo, deciso a berla lì, sul posto. L’addetto alla sicurezza mi afferrò la mano con una presa di ferro per impedirmi quello che gli doveva sembrare un gesto fatale. Ma allora il mio compagno di viaggio, il dottor Chen, intervenne alle mie spalle: «Lascialo, loro possono bere.» L’agente mi lasciò, e i suoi colleghi si radunarono intorno, curiosi di assistere a quell’impresa tanto rara quanto invidiabile.

I popoli, che gli Han chiamavano tradizionalmente “barbari del sud” — i Dong e i Miao — sono un’altra storia. Come noi, possiedono l’enzima che trasforma l’acetaldeide in acido acetico, facendo così sparire rapidamente la sostanza tossica dall’organismo. Ecco perché tra loro esiste un’istituzione popolare assente nel mondo Han: la distilleria e taverna.

Una taverna dei Dong non assomiglia alle nostre. Non è un luogo per chiacchierare bevendo — a quello serve la torre del tamburo, il centro comunitario del villaggio. Il cuore della taverna è l’alambicco, da cui l’acquavite gocciola senza sosta. E che acquavite! Limpidissima, un distillato di frutta di 50-53 gradi.

L’alambicco non è circondato da sedie, ma da enormi giare piene di liquore, decorate con il carattere 酒 jiŭ, “bevanda”. Le giare, insieme a zucche essiccate, cesti, strumenti musicali e iscrizioni calligrafiche, riempiono lo spazio di un’atmosfera da bottega d’antiquariato o piccolo museo, come nel quartiere di Ma’an, nel villaggio Dong di Chengyang.

Al centro, circondata dalle giare come il tavolo di un libraio antiquario, si trova una tavola da cerimonia del tè: ma nelle minuscole tazze da degustazione (品茗杯 pĭn míng bēi) non si versa tè, bensì liquore. Il cliente non lo beve sul posto: lo acquista a peso, in giara o bottiglia, per portarlo a casa e condividerlo con gli amici o nei luoghi comunitari.

Elemento decorativo imprescindibile è il cranio di bue, bufalo o yak, le cui enormi corna servono a scacciare gli spiriti maligni e, al tempo stesso, evocano la virilità.

Questi crani si ottengono spesso da amici pastori; chi non ne ha può trovarli nelle popolari “botteghe del corno”, dove si vende di tutto: souvenir intagliati nel corno, scapole incise con calligrafie e persino crani completi con grandi corna.

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L’insegna di una bottega del corno a Zhaoxing è un perfetto esempio di come la calligrafia cinese oscilli tra immagine e scrittura. Il carattere 牛 niú (“bue”), stilizzato tremila anni fa dal disegno frontale di una testa di toro, torna qui a essere immagine: un totem che richiama le forme dei crani cornuti appesi intorno e ne amplifica l’aura arcaica.

Ma Zhaoxing oggi non ospita solo taverne dei Dong. Tra i suoi vicoli porticati, che costeggiano canali simili a quelli di una piccola Venezia, si trovano anche botteghe gestite dai Miao, il popolo che vive sulle montagne del Guizhou. Una di queste è la 苗王 miáo wáng, “Il Re Miao”, a metà tra antiquario e bar.

Naturalmente, i Miao non hanno mai avuto un re — e non avrebbero potuto, dato che il termine “Miao” fu imposto da altri popoli, tra cui i cinesi, per designare una costellazione di tribù che non si consideravano affatto un’unica nazione. Tuttavia, l’uomo dalle chiome folte e la lunga barba che compare nelle foto appese all’ingresso e sulle bottiglie di liquore ha davvero l’aspetto di un sovrano nomade.

In una saletta laterale si trova perfino un rozzo trono di legno, naturalmente coronato da due corna, circondato da oggetti rituali Miao, come se il re stesse per ricevere i suoi sudditi.

Ma il trono, ora, è vuoto. Dal bancone si alza un uomo che dormiva lì, sorprendentemente somigliante al “Re Miao” delle fotografie. Non per caso: è suo nipote.

La loro impresa familiare, Il Liquore del Re Miao, viene distillata nel loro villaggio natale. Il piano terra della bottega è dedicato alla promozione del prodotto, in varie versioni: dal distillato fresco dell’anno alle edizioni invecchiate di quattro e otto anni, confezionate in eleganti cofanetti regalo. Tutto, naturalmente, in quell’atmosfera da antiquario tipica delle taverne dei Dong.

Dopo un po’ di conversazione, mi invita a salire. Al piano superiore c’è un vero magazzino di antiquariato, accessibile solo agli iniziati o ai compratori seri che desiderano vedere di più di ciò che è esposto in basso. Srotola un antico rotolo taoista: il saggio raffigurato assomiglia in modo impressionante a lui e a suo nonno.

Tornato al piano terra, tira fuori un meraviglioso mantello antico, ricamato d’oro e con draghi. Mi viene l’acquolina in bocca a guardarlo, ma non oso chiedere il prezzo. Se lo infila, si mette in testa un turbante Miao e posa davanti al ritratto del nonno, con la pipa del vecchio fra le mani.

Per lo spettacolo, mi sembra doveroso acquistare una bottiglia del Liquore del Re Miao invecchiato otto anni, nella sua elegante confezione. Duecento yuan, circa venti euro. Chiedo anche quattordici piccoli bicchieri, per condividerlo con i miei compagni di viaggio. Li raggiungo in un ristorante dong specializzato in pesce. Il verdetto è unanime: è il miglior liquore che abbiamo mai bevuto in Cina.