lunedì 5 ottobre 2015

Manoscritti giudeo-persiani

Re Assuero e le damigelle. Shahin, Ardashir-nameh, Persia, fine del 17° secolo (Berlino, Staatbibliothek Preussischer Kulturbesitz)

Quando ho letto, che il programma di viaggio di Iran di Río Wang comprendeva «una passeggiata nel quartiere ebraico di ottocento anni, il più grande centro ebraico in Iran», ho pensato a una collezione meravigliosa di manoscritti ebraici, Skies of parchment, seas of ink, a cura di Marc Michael Epstein, pubblicata poco fa dalla Princeton University Press. Quindi vorrei offrire ai nostri lettori alcuni spunti di arte e letteratura sulla comunità giudeo-persiana tra il 15° e 19° secolo.

La comunità ebraica arrivò in Persia in due fasi. La prima era intorno al 700 aC, al tempo dell’egemonia assira, quando il re Sargon II trasferì interi popoli nel paese dei medi, nel nord e ovest dell’Iran di oggi, e la seconda uno e mezzo secolo più tardi, dopo l’occupazione babilonese di Gerusalemme. Una gran parte della diaspora vi rimase anche dopo essere stati liberati dal re Ciro nel 539, e si stabilirono per tutto l’impero persiano, dove rimasero per più di due millenni.

Uno dei primi testi noti che documentano questa comunità è una lettera di commercio giudeo-persiano del 8° secolo, che Aurel Stein trovò nel 1901 a Dandan-Uiliq, un centro commerciale sulla Via della Seta nel Turkestan cinese. Essa fu scritta in persiano (o meglio giudeo-persiano), in scrittura ebraica. Questa pratica era in uso per tutta la Persia, Afghanistan e l’Asia centrale per oltre un millennio, come un modo della diaspora a preservare la loro identità ebraica e patrimonio storico.


Fra i più importanti manoscritti giudeo-persiani c’è la copia del 1319 del Torat Mosheh, il primo conosciuto testo giudeo-persiano del Pentateuco. Questa traduzione della Torah era anche uno dei primi testi stampati in questa lingua, che appare in un Pentateuco poliglotta pubblicato a Costantinopoli nel 1546.

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Ma a differenza dei bei codici illuminati delle comunità ebraiche dell’Europa, questi primi manoscritti giudeo-persiani contenevano solo testo. Dobbiamo aspettare fino al periodo safavide per trovare illustrazioni in un manoscritto giudeo-persiano. Infatti, l’aniconismo era una caratteristica significativa dei manoscritti ebraici orientali.

Pensiamo pure a quei manoscritti medievali armeniani nella Cattedrale Vank di Isfahan, illuminati con delle belle lettere e miniature a pagina intera – e poi dimentichiamoli. Dei manoscritti giudeo-persiani ne conosciamo solo dodici o tredici illustrati, di cui nessuno risale prima del 17° secolo. Dodici o tredici manoscritti con centosettantanove miniature.

Naturalmente la comunità armena di Isfahan era molto giovane, appena arrivata da Armenia, dopo che Scià Abbas saccheggiò il paese, una comunità con ricche tradizioni. Al contrario, la comunità ebraica era una vecchia comunità persiana, e il suo contatto prolungato con la cultura persiana risultò in una profonda acculturazione, soprattutto nella letteratura e arti applicate. E il periodo della produzione di questi manoscritti conicide con un momento molto difficile delle persecuzioni e del declino economico della comunità. Durante il regno di Scià Abbas II un grande numero di incidenti antisemiti ebbe luogo. Tuttavia, molti musulmani, fra cui ufficiali di alto rango, resistettero l’ordine di costringere gli ebrei a convertirsi. Insieme agli ebrei, i sufi e le altre minoranze religiose, come gli armeni e zoroastriani erano anche obiettivi dell’intoleranza religiosa. Pare che la maggior parte delle comunità ebraiche furono convertite nel 1656, e i loro membri divennero anusim («convertiti forzati») per circa sette anni, durante cui esteriormente si conformarono con l’islam sciita, mentre in segreto praticarono il giudaismo. Questa pratica, ironicamente, era simile a quella della taqiya (dissimulazione), seguita dagli sciiti per molti secoli. Gli eventi di questi anni sono descritti nel Ketāb-e anusi, «Il libro dei convertiti» da Bābāʿi ben Loṭf, un testimone ebreo a Kashan.

Angeli sradicano gli alberi nel giardino di Assuero. Shahin, Ardashir-nameh, Persia, seconda metà del 17° secolo (Berlin, Staatbibliothek Preussischer Kulturbesitz). Questo è un caso in cui riferimenti dal Talmud e dal Midrash vengono utilizzati per animare la storia. L’illustrazione è un’espansione fantasiosa di Ester 7:7. Nel testo biblico Ester ha appena esposto il complotto di Haman. Assuero si alza in furia e «uscì nel giardino del palazzo». Il Talmud suggerisce che, visto che non viene detto che la sua rabbia si calmò, anche «ritornò in furia» – ma perchè? Perchè angeli in forma di uomini stavano sradicando gli alberi nel giardino reale, apparentemente al comando di Haman.

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Questi manoscritti, anche se notevoli, non raggiungono mai la perfezione della maggior parte delle miniature persiane. Non potevano gareggiare con le miniature prodotte nelle officine reali, come queste qui in seguito, ma piuttosto paiono opere popolari e provinciali dagli studi di corti più piccole, che ripetono schemi classici, montagne e nubi, cavalieri e angeli con ali diretti. Gli ebrei persiani cominciarono a ordinare manoscritti che narravano le storie dei loro eroi in un modo che riflette lo stile dei manoscritti delle corti dell’epoca safavide.

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La comunità giudeo-persiana non era mai particolarmente produttivo nella filosofia o legge, ma piuttosto seguivano gli insegnamenti classici dei rabbini dell’alto medioevo. Questi manoscritti illustrano anche le traslitterazioni ebraiche di romanzi persiani, come Yusuf e Zulayḵā (Giuseppe e la moglie di Potifare). Alcuni sono singole foglie di poesia. La maggior parte sono laiche piuttosto che opere sacre. A volte, quando narrano i propri temi, li arricchiscono con trasliterazioni di narrative epiche dalla letteratura persiana, e includono vari romanzi popolari. I migliori esempi sono i manoscritti illuminati del poema epico di Shahin, un poeta ebreo di Shiraz dal 14° secolo, il Musa-nameh (Storia di Mosè), che imita la tradizione iconografica del Shah-nameh di Ferdowsi, e collega Mosè con il pantheon degli eroi persiani. Il testo e le illustrazioni presentano le sue prove di combattere con un leone, un lupo e un drago, finché si dimostra degno di incontrare il roveto ardente.

Possiamo ammettere che questi manoscritti furono scritti e illuminati per i membri di rango delle comunità ebraiche più grandi, come quelle di Isfahan o Kashan. Non è possibile dimostrare che siano stati prodotti da ebrei, in quanto non sono firmati (anche se nessun divieto li avrebbe impedito di imparare questo mestiere). Tuttavia, alcuni dei pittori potevano essere musulmani, come è suggerito dall’esemplare illuminato del Musa-nameh di Shahin copiato nel 1686 a Tabriz. Qui il volto di Mosè viene sistematicamente coperto da un velo sul quale si legge in lettere persiane: «Sua Eccellenza Mosè» (janāb-e ḥażrat-e Musā).

Mosè con un velo bianco sul volto e un alone di fiamme d’oro attorno alla testa osserva come Pinchas uccide con la sua lancia Cosbi e Zimri, trovati nell 'atto sessuale (Numeri 25:6-8). La rappresentazione della scena è molto insolita. Il Musa-nameh mette in rilievo le battaglie fra il popolo d’Israele e i suoi nemici, dove Mosè appare in un modo chiaramente progettato per farlo il controparte di Maometto.

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È anche possibile che il pittore era ebreo, che intendeva il suo lavoro anche per gli occhi dei musulmani, e così scelse modelli iconografici che rispettavano la sensibilità muuslmana. Infatti, alcune divergenze fra certe miniature e il testo suggerisce che i pittori, sia ebrei che musulmani, non erano in grado di leggere il testo giudeo-persiano, e qualcuno doveva descrivere per loro il contenuto da illustrare. Se i pittori erano musulmani, questi manoscritti sono esempi di una cooperazione ebraico-musulmana. I testi furono ovviamente scritti da ebrei, ma le illustrazioni potevano essere dipinte da artisti musulmani, seguendo le istruzioni dei committenti.

Alcuni dei manoscritti sono piuttosto polemici, confrontando gli eroi ebraici con le figure sacre dell’islam, ed esaltandoli. L’islam aveva incorporato varie versioni delle narrative ebraiche nel Corano e nella propria tradizione, e così la rappresentazione di Mosè con gli attributi di Maometto non era esente di pericolo, se i musulmani fossero stati in grado di leggere il testo giudaico-persiano. La glorificazione ricorrente degli eroi ebrei serve da presentare immagini di forza nell’epoca delle persecuzioni. Si tratta di una rappresentazione nostalgica di un'epoca migliore, un appello al presente scià di seguire la sua eredità esaltata di tolleranza, un supporto per gli ebrei, e un augurio che ancora una volta gli ebrei armati, «figli di Giacobbe» possano vendicarsi del «popolo maledetto di Haman».

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giovedì 1 ottobre 2015

Fotografo dietro il bancone del bar

«Sei un fotografo?», l’uomo alto e magro mi chiede, come mi raggiunge lungo la strada Chahar Bagh, andando verso il bazar di Isfahan. «No, solo prendo delle foto.» «Tutti cominciano così.» Fissa la camera come un esperto. «Ho lo stesso, ma un numero prima.» «Sei un fotografo?» «Sì, un fotoreporter, soprattutto per riviste iraniane, ma ho già pubblicato anche in Spiegel e National Geographic.» «Mi mostri le tue foto?» «Sei il benvenuto. Ho un negozio di caffè qui nel bazar, ti invito per un caffè.»


Il negozio di caffè da una persona di Hassan Ghayedi è l’unico bar nel bazar, il quale è una città nella città di Isfahan. Nell’Iran colpito dall’embargo quasi non si può comprare caffè da nessuna parte, ma nel piccolo negozio di Hassan si può scegliere tra i migliori tipi. Segretamente ricevo una tazza come non-musulmano, il digiuno di Ramadan non è ancora scaduto.

«I più grandi fotografi iraniani? Beh, Cartier-Bresson. E Ingo Morath. Loro sapevano già tutto sull’Iran. Come guardano il popolo, il paesaggio iraniano. Questo è il punto di riferimento anche per noi.»

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Le foto iraniane di Henri Cartier-Bresson, 1950

«Sono cresciuto nella regione di montagna di Lorestan, vicino al confine con l’Iraq. Mio padre lavorava in Qatar, da dove ha inviato una macchina fotografica a mia sorella. Ho fotografato un intero rotolo con essa. La mia prima foto era un tulipano di montagna, poi la famiglia. Quando l’ho fatto sviluppare, il mio capo, perché ho iniziato di lavorare in un bar lì, ha detto che mi comprerebbe questa prima foto. Ha pagato un buon prezzo. Qualche giorno dopo mi ha mostrato che era in uno dei più popolari settimanali dell’Iran, un quadro a piena pagina, sotto il mio nome. Ha detto che dovrei essere un fotografo. Che mi dà una settimana di ferie per andare a Teheran, al club dei fotografi, per presentarmi, per chiedere consiglio. È così che è iniziato.»

Mi chiede la Canon, scatta qualche foto dei venditori vicini, mi lascia prendere alcune immagini di se stesso e di sua moglie che è arrivata nel frattempo. Anche quest’ultima guarda il risultato da esperto. «Bella, chiara immagine.» Tramonta, il digiuno di Ramadan sta lentamente arrivando al termine, amici si stanno radunando davanti al bar, tutti fotografi, affamati di caffè. Uno di loro assume una posa, punta a se stesso, vuole che lo fotografi. Si piegano sopra la foto, criticamente guardando il risultato. Sono soddisfatti. Tutti assumono una posa.

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«Che tipo di musica ti piace?» Lui sta pensando, sua moglie lo dice invece di lui. «I maestri persiani. Shajarian. Dariush Rafee.» Hassan annuisce.

«Che cosa ti piace di più fotografare?» «Mi piacerebbe fotografare terre lontane, se il negozio di caffè mi lasciasse andare. Ad Abyaneh [50 km dal bazar] sono già stato. A Sar Agha Seyyed [100 km] non ancora. Tu c’eri? Mi mostri le tue foto? Me le carichi? Ma per lo più fotografo qui a Isfahan, nelle piazze, nelle moschee, sul ponte. Nel bazar, i venditori e i visitatori. Questo è ciò che conosco, qui sono a casa.»



Hafez: Qatl-e in khasteh… Dariush Rafiʿee. Dal CD Golnâr (2006)
Fotografie di Hassan Ghayedi. Molte immagini non sono incluse nel mosaico, esse possono essere viste solo cliccando su una delle piastrelle (logicamente, la prima), e scorrendo le immagini in grande dimensione.


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