giovedì 31 dicembre 2015

La guerra vista dal basso


«La guerra vista dal basso», abbiamo scritto davanti al rapporto sulla conferenza, la quale si occupò con la relazione fra il fronte e l’entroterra, i soldati e le loro famiglie, l’auto-organizzazione delle comunità locali, le cartoline di guerra, e così via. Però la guerra è visto veramente dal basso, from a grassroots perspective, dai caduti. Loro sono stati commemorati con un monumento insolito nella città sarda di Orgòsolo.


Le mura di Orgòsolo sono state decorate da murales – di sorprendentemente buona qualità – dagli anni 1960, i quali si sono diffusi di qua negli altri centri di Sardegna. Ma mentre in altri luoghi di solito dipingono scene e figure tradizionali, la maggioranza degli affreschi di Orgòsolo sono dipinti di protesta politica. Orgòsolo, nel cuore della Barbagia, la regione più arcaica e più chiusa della Sardegna, era sempre il centro dell’indipendenza sarda e della protesta contro il potere italiano, considerato come invasore. Questo era particolarmente così negli anni 1960 e 1970, quando i cittadini hanno difeso la cultura pastorale tradizionale contro l’espropriazione statale della terra. I primi murales, di cui scriveremo in dettaglio in un post a parte, erano l’espressione di questa resistenza.


Il murale in questione adorna l’angolo di via Cadorna. Generale – sotto Mussolini, Maresciallo – Luigi Cadorna era il capo di stato maggiore dell’esercito italiano nella prima guerra mondiale. Nella vittoriosa Italia molte strade erano nominate da lui. Tuttavia, l’opinione degli storici non è così favorevole. Secondo David Stevenson, lui era «uno dei comandanti più insensibili e incompetenti della prima guerra mondiale», che credeva che la disciplina risolverà tutto. Era estremamente crudele con i suoi soldati, mentre non ha potuto raggiungere il minimo successo sulla fronte dell’Isonzo a causa della mancanza di organizzazione, fornitura e comprensione militare. Fra 1915 e 1917 ha lanciato undici offensive importanti contro le posizioni austro-ungariche, tutt’e undici senza successo, ma con perdite enormi. Poi, quando alla fine di ottobre 1917 gli imperi centrali lanciarono un contrattacco a Caporetto – oggi Kobarid –, essi spazzarono via in pochi giorni l’esercito italiano, la cui maggioranza – 275 mila soldati – si arresero. L’Italia ha potuto terminare la guerra solo con il sostegno francese e britannico. Quasi seicentomila soldati italiani morirono ai fronti dell’Isonzo e del Piave.

«Per attacco brillante si calcola quanti uomini la mitragliatrice può abbattere e si lancia all’attacco un numero di uomini superiore: qualcuno giungerà alla mitragliatrice.»
Luigi Cadorna: Lettere


Se uno grato Stato Italiano provvede con un cartello stradale che il nome del generale Cadorna sia sempre ricordato, il murale dipinto accanto ad essa come un commento assicura, che i sardi – fra cui specialmente molti giovani furono persi durante la prima guerra mondiale – sappiano esattamente ciò che devono a Cadorna. Il testo del commento suona così:

«Generale L. Cadorna massimo responsabile degli eccidi della 1ª guerra mondiale.
Soldati morti su tutti i fronti: 8 milioni 740.000
Soldati italiani morti: 571.000
Invalidi e mutilati: 451.645
Dispersi: 117.000
210.000 soldati fucilati e condannati perché volevano farla finita con la guerra.
GENERALI ASSASSINI!”


E la canzone del soldato della prima guerra mondiale dato in bocca alla giovane vedova, e quindi a tutta la comunità, fa in modo che anche la memoria di Caporetto sia sempre ricordata:


E anche a mi’ marito tocca andare. Testo e registrazione di qui

E anche al mi’ marito tocca andare
a fa’ barriera contro l’invasore,
ma se va a fa’ la guerra e po’ ci more
rimango sola con quattro creature.

E avevano ragione i socialisti:
ne more tanti e ’un semo ancora lesti;
ma s’anco ’r prete dice che dovresti,
a morì te ’un ci vai, ’un ci hanno cristi.

E a te, Cadorna, ’un mancan l’accidenti,
ché a Caporetto n’hai ammazzati tanti;
noi si patisce tutti questi pianti
e te, nato d’un cane, non li senti,

E ’un me ne ’mporta della tu’ vittoria,
perché ci sputo sopra alla bandiera;
sputo sopra l’Italia tutta ’ntera
e vado ’n culo al re con la su’ boria,

E quando si farà rivoluzione
ti voglio ammazzà io, nato d’un cane,
e a’ generali figli di puttane
gli voglio sparà a tutti cor cannone.


martedì 29 dicembre 2015

Transizione: Attraversando il fiume

Anton Graff: L’Elba sotto Dresda, ca. 1800. Gemäldegalerie Alter Meister, Dresda

Attraversando l’Elba al sorgere del sole, l’altro ieri


Walter scrive:

Il nuovo post di Dániel mi ha toccato, ma non con le parole. Quindi anch’io vorrei rispondere allo stesso modo, ma i commenti in Blogger non accettano le immagini.

Noi viviamo nella città vecchia di Kingston upon Hull, cinque minuti a piedi dall’estuario del Humber, il quale è un fiume abbastanza capriccioso (ci sono molti allagamenti nei fiumi che lo alimentano). Quel giorno non c’era nessun altro suono che la sirena triste e le voci soffocate dalla barca lasciando sulla marea. Avevo lo stesso sentimento di essere fuori tempo a cui Dániel allude.

Più di 2.2 millioni di immigranti ebrei passarono attraverso Hull nel secolo precedente al 1914. La famiglia di mia moglie Hilary rimase qui forse perché non avevano soldi per il passaggio. La comunità ebraica locale è in declino, poche centinaie rimangono, ma la loro storia è ancora rintracciabile nel dettaglio in cui río Wang si specializza.

lunedì 28 dicembre 2015

Mare fantasma


L’ultima escursione di questo anno, al Nagy-Kopasz («Grande Calvo») nelle Montagne di Buda. Nell’ultima settimana la maggior parte dell’Ungheria era coperta con nebbia e nuvole grigie, il sole è apparso solo occasionalmente. Ma se si raggiunge sopra la linea di nebbia, si arriva in un’altra dimensione, unpathed waters, undreamed shores. Come se il fantasma del Mare di Pannonia starebbe per riconquistare il suo ex bacino, le colline diventano isole e penisole, le torri di avvistamento sulle loro cime sono fari nel lento rotolamento del mare fantasma illuminato dal sole. I pini neri, artificialmente installati sul lato calvo sud-ovest della collina dolomitica, ricordano dipinti d’inchiostro cinesi con i loro gruppi che si emergono dalla foschia galleggiante fra di loro. Silenzio e la sensazione di essere fuori del tempo.



Hossein Alizade: مه Meh (Mist). Dall’album ماه و مه Mâh o meh (Luna e nebbia, 2009).

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domenica 27 dicembre 2015

Dresda, Gemäldegalerie Alter Meister 1


Riconoscono i dipinti fotografati nella Galleria di Dresda in base ai dettagli? Scriveremo sotto i dipinti riconosciuti il loro titolo. Cliccando su di essi è possibile vedere l’intero quadro.


Jordi Savall, Montserrat Figueras, Hespèrion XXI: Seguidillas en eco: De tu vista celoso. Dal CD Folías Criollas (2010)

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mercoledì 9 dicembre 2015

Da Maiorca a Alghero

Alguer/Alghero, Via di Maiorca

Veramente Maiorca! vedi: Electri city

«La scuola della lingua algherese, nel servizio dell’identità di Alguer. Chi non apprezza la sua lingua, non ama la sua patria!»

Ci sono paesi che sono separati dal mare. E ci sono altri che sono collegati dal mare. L’infinita superficie d’acqua che per noi, gente di terraferma significa il limite del mondo abitato, è per loro il mondo abitato stesso, con una fitta rete di strad. Le loro città voltano le spalle alle montagne ostili, sono aperte verso il mare, si guardano l’una l’altra dalle sponde opposte del mare. Come la vecchia Grecia, la vecchia Cartagine, la vecchia comunità veneto-dalmata. E la vecchia Catalogna.


Sulla mappa l’ex impero marittimo catalano si è ridotto notevolmente. Non include più la Sicilia, né Provenza, Napoli o Malta, tanto meno il Ducato di Atene. Ma c’è ancora una piccola macchia gialla da qualche parte all’est, in un angolo della Sardegna, che rende ancora questo mondo rotondo, e gli permette di dimostrare la sua natura marittima. Questo è Alghero, in sardo Alighèra, nel dialetto locale del sardo Liera. In catalano, Alguer.

Alghero, da qui

Nel medioevo le due grandi potenze marittime, la Catalogna e il suo successore, il regno d’Aragona, e Genova combattevano per secoli per la supremazia sul bacino orientale del Mediterraneo. Il porto di Aleguerium, questo magnifico posto di controllo fu conquistato nel 1353 dai catalani dai Doria di Genova, e fatto un punto d’appoggio catalano. Come la prima descrizione della Sardegna scrive sulle lingue parlate nell’isola nel 1759, due generazioni dopo che Sardegna fu trasferito dalla Spagna sotto il dominio piemontese:

«Li linguaggi in uso nella Sardegna sono il Sardo, che è la lingua naturale del Paese, il Castigliano, e il Catalano. Il primo è commune ad ogni ordine di persone essendo il primo che imparasi. Egli è difficilissimo a scrivere che perciò presentemente si parla solamente. Tutte le persone Colte parlano il Castigliano, e questo insegnano ai loro figliuoli. In questo si scrivono tutte le lettere, e si fanno tutti gli atti giuridichi, Scritture, Contratti e tutto quello in somma che scriver devesi. Il Catalano poi non è lingua comune ma solo propria degli Algheresi ed in uso nella maggior parte de’ Monasteri di Monache.»

Il dialetto locale del catalano è tuttora una lingua ufficiale nella città, insieme all’italiano. È la lingua madre di un quarto della popolazione, ma praticamente è parlata da tutti. Sulle mappe della zona di lingua catalana appesa nelle scuole e università in Catalogna, Valencia e Maiorca, con orgoglio e nostalgia fiorisce il piccolo puntino rosso sulla punta della Sardegna, come ricordo della passata grandezza e segno della comunità. Come ne canta la grande cantante catalana, Maria Del Mar Bonet – da cui abbiamo spesso citato – nella sua canzone Desde Mallorca a L’Alguer, Da Maiorca a Alguer:


Maria Del Mar Bonet: Desde Mallorca a l’Alguer (2003, video qui)

Des de Mallorca a l’Alguer
els mocadors dels vaixells
van saludant-se a ponent,
les oliveres al vent,
antiga boira del cel,
fent papallones de verds.

Des de Mallorca a l’Alguer
la lluna diu cada nit:
«es mor la mar lentament».
El sol respon als matins:
«el foc avança roent,
per les muntanyes que veig».

Des de Mallorca a l’Alguer,
des de l’Alcúdia a l’Albuixer,
des de Maó a Cadaqués,
des de Montgó a es Vedrà,
des de Talltendre a Queixans,
de Porqueroles a Calp,
des de Mallorca a l’Alguer,
des de Dalt Vila a San Joan,
des de Tabarca a Forcall,
de Ciutadella a Llançà,
d'Espalmador a Alcanar,
de Torreblanca a Malgrat,
des de Mallorca a l’Alguer.

Vella remor de la mar:
les illes s’hi van gronxant,
i avui s'agafen les mans
des de Mallorca a l’Alguer.

Els mots que canta la gent:
vives paraules que entenc,
que tots parlam es mateix.
Da Maiorca a Alghero
i fazzoletti delle barche
si salutano al tramonto
ulivi nel vento
farfalle verdi nell’antico
foschia del cielo.

Da Maiorca a Alghero
la luna dice ogni notte:
«il mare sta lentamente morendo».
Il sole risponde al mattino:
«il fuoco rosso scoppia in avanti
fino alle montagne all’orizzonte».

Da Maiorca a Alghero
da Alcúdia a Albuixer
da Maó a Cadaqués
da Montgó a Vedrà
da Talltendre a Queixans
da Porqueroles a Calp
da Maiorca a Alghero
da Dalt Vila a San Joan
da Tabarca a Forcall
da Ciutadella a Llançà
da Espalmador a Alcanar
da Torreblanca a Malgrat
da Maiorca a Alghero

l’antico mormorio del mare,
le isole ondeggiano su di esso
si danno la mano a vicenda
da Maiorca a Alghero.

Le parole cantate dalla gente
sono parole vive che capisco
perché parliamo nello stesso modo.

Il Golfo di Alghero visto dalle montagne sarde

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«La città di Alghero al chiaro della luna, amico mio…» Particolare dal poema di Salvador Espriu Per a una suite algueresa, inciso su un obelisco nel vecchio porto

martedì 8 dicembre 2015

Sardegna 1959 – Azerbaigian 2015

Che cosa ci porta ad andare lontano? Lontano nello spazio intendo, quando il nostro ci sembra ristretto? Più dello spazio, è la ricerca del tempo perduto. Cè un altrove dove il tempo perduto è presente. Nell’immersione in questi mondi troviamo un tempo più lento, un isolamento che ci aiuta ad ascoltare noi stessi. Abbandoniamo i nostri ruoli e torniamo ad essere noi, con i nostri sorrisi, i nostri sguardi, spesso i nostri silenzi. In quei silenzi ritroviamo, insieme ad un tempo che sembrava perduto, un mondo più vero, quello che per noi, nelle nostre vite, ha smesso di esistere.

Tornati dall’Azerbaigian, il confronto con la Sardegna, quella di cui ho parlato nel post precedente a proposito del bellissimo libro di Carlo Bavagnoli, è stato inevitabile. Le foto scattate a Xinaliq sono mie. Xinaliq era il luogo più desiderato del viaggio. Ne avevo letto nel bellissimo Figli di Noè di Monika Bulaj, la straordinaria viaggiatrice e fotografa polacca a cui a Milano nel mese scorso è stata dedicata una mostra personale che abbiamo come è ovvio visitato, e visto il suo documentario Figli di Noè.

Si arriva a Xinaliq dopo chilometri percorsi in un ambiente naturale straniante e l’emozione è stata fortissima. Mi sono apparsi scorci mozzafiato e il resto, le persone e le case, si sono svelate poco a poco. Xinaliq mi è rimasta nel cuore e vorrei se possibile tornarci. Tornerò sicuramente in Sardegna: qualcosa del mondo ritratto nel libro di Bavagnoli, è rimasto. Nell’attesa sfoglierò entrambi i libri, riguarderò le nostre fotografie trovando nuove analogie. Le foto scattate a Xinaliq non sono foto rubate. Tra i soggetti e me c’è stato un gioco di sguardi. E gioco forza, di silenzi.

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lunedì 7 dicembre 2015

Sardegna 1959. L'Africa in casa di Carlo Bavagnoli


Sarà che amo la Sardegna, sarà che per me la Sardegna è soprattutto il suo interno, sarà che sono nata nel 1959… il fatto è che quando ho visto il libro di Carlo Bavagnoli ho voluto averlo.


Di lui, di Carlo Bavagnoli, fotografo, ignoravo l’esistenza, cosa di cui sinceramente un po’ mi vergogno, ma della Sardegna da lui raccontata per immagini avevo la certezza: a partire dai romanzi di Grazia Deledda ma soprattutto dai nostri vagabondaggi in Baronia e Barbagia.

Perché oggi quel passato di povertà è ancora evidente. Le vecchie case diroccate di pietra e fango fanno parte del paesaggio urbano.


Ed esercitano un fascino, almeno per noi, irresistibile. Perché in quelle pietre è scritta la storia di “persone” che hanno vissuto alle soglie del boom economico in condizioni di arretratezza estrema e miseria, conservando però dignità, fierezza e anche una certa eleganza. Per capirlo basta avvicinare e parlare con un qualsiasi anziano, donna o uomo che sia, per percepirlo.


Carlo Bavagnoli arrivò in Sardegna nel ’59 insieme a Livio Zanetti, redattore dell’Espresso. Dalle testimonianze da loro raccolte trassero un reportage che venne pubblicato poi sulla rivista e che per conto di una commissione parlamentare doveva documentare la povertà del Meridione.


Per Carlo Bavagnoli non era il primo reportage in terra sarda. Era già stato ad Orani l’anno precedente per documentare l’attività di Costantino Nivola, pittore e scultore.

Figura femminile, Costantino Nivola

Costantino Nivola: ritorno ad Itaca, foto di Carlo Bavagnoli – Orani, vie del Centro Storico

Furono in tanti allora a Sardegna a lasciare l’Isola per il Continente, in cerca di condizioni migliori: un futuro comunque duro, fatto di lontananza, incertezza, emarginazione. Le stesse condizioni in cui si trovano a vivere oggi i tanti che abbandonano l’Africa. Se la montagna non viene a Maometto, si diceva, Maometto va alla montagna. Il miracolo, è evidente, deve ancora avvenire.

Sono nata nel 1959, la data del reportage.


Della prima elementare ricordo ancora il barattolo per le offerte ai bambini poveri dell’Africa e del Bangladesh. Faceva sentire i nostri adulti migliori, la loro povertà non era nostra diretta responsabilità. Il silenzio sul Meridione era omertà, l’ho capito anni dopo. Durante il mio girovagare avrei voluto chiedere perché i ruderi vengono mantenuti. Voglio pensare che sia anche un modo per ricordare, per sapere quello che sono stati, che è stata la Sardegna. Il libro che ho comprato voglio sia questo per me. Anche per fare ammenda. Perché nello stesso giorno in cui io nascevo al Nord del Continente, il 20 novembre del 1959 appunto, qualcuno dal Continente andava in Sardegna, vedendo solo quello che voleva vedere.


Carlo Bavagnoli nasce a Piacenza nel 1932. Completati gli studi classici, nel 1951 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Milano. A Brera ha modo di confrontarsi con alcuni giovani fotografi, Alfa Castaldi, Mario Dondero e Ugo Mulas. Nel 1955, trasferitosi definitivamente a Milano, inizia a collaborare con Illustrazione Italiana, Tempo illustrato e Cinema Nuovo.

Assunto come fotografo da Epoca, nel ’56 viene trasferito nella redazione romana della rivista. Nella capitale inizia un lungo lavoro di documentazione del quartiere popolare di Trastevere, grazie al quale ottiene i primi contatti con la rivista americana Life, che gli pubblica alcune foto.

Nel marzo del 1958 è per la prima volta in Sardegna, ad Orani, dove per la stessa testata fotografa Costantino Nivola durante la decorazione della facciata della chiesa della Madonna d’Itria e la mostra di sculture allestita per le vie del paese.

L’anno successivo trascorre un mese a New York, dove ancora Life, gli richiede, a scopo formativo, la realizzazione di un reportage sulla vita della metropoli; due anni dopo gli offre un contratto come corrispondente dall’Italia. Negli anni successivi lavorerà come free lance per diversi giornali.

Tra il 1960 e il 1961 torna in Sardegna, a Loculi e Irgoli, inviato da L’Espresso per un servizio sulla povertà in Italia. Negli anni seguenti i viaggi tra l’Italia e gli Stati Uniti s’intensificano. Per Life documenta l’apertura del Concilio Vaticano II, la morte di Giovanni XXIII e l’elezione di Paolo VI. Nel frattempo continua la sua collaborazione con Epoca.

Il 1964 è un anno memorabile per la sua attività: è assunto nella redazione americana di Life, fatto unico per un fotografo italiano; dopo un anno trascorso a New York, viene trasferito alla sede di Parigi.

Dal 1972, anno in cui cessa la pubblicazione della rivista americana, intensifica i suoi rientri in Italia, pubblica numerosi libri fotografici, realizza vari documentari per la televisione e si occupa di musica classica.


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