mercoledì 27 gennaio 2016

Lo sfratto, parola dolce a Pitigliano


Detto così pare impossibile. E così non fu per gli ebrei che nel sec. XVII vivevano in Maremma, espulsi dallo Stato della Chiesa nel XVI secolo, nella zona compresa tra Sovana e Sorano. Cacciati dalle loro case dall’editto del 1619 di Cosimo II de’ Medici, furono obbligati a vivere nel ghetto di Pitigliano, a ridosso della sinagoga. L’avviso di lasciare le loro case venne dato con un bastone battuto sulle porte e cento anni più tardi gli ebrei di Pitigliano vollero ricordare questo evento con un dolce, fatto da un impasto di miele e noci, scorzette di arancia e anice, rivestito da una sottile cialda dal colore del pane.


Pitigliano, città del tufo di origini etrusche, è uno dei più belli borghi d’Italia. A cavallo tra la Maremma Toscana e il Lazio, venne chiamato “La piccola Gerusalemme” a causa dell’importanza della numerosa comunità ebraica che vi si stabilì a partire dalla metà del  XVI secolo. Si trattava per lo più di ebrei sefarditi spinti in quell’angolo di Toscana dalla Bolla di Papa Paolo IV del 1555 con cui venne imposto agli ebrei di vivere in un certo numero di vie dove non fosse possibile il contatto con i cristiani, di fatto istituzionalizzando il ghetto, e di indossare abiti che ne rendessero immediato il riconoscimento. A queste direttive si uniformò anche Cosimo II de’ Medici e gli ebrei del Granducato di Toscana, anche quelli provenienti da Sorano e Sovana,  che non vollero accettare questa politica persecutoria emigrarono nella contea di Pitigliano, governata dagli Orsini, ben felice di ospitare la comunità ebraica, colta e a cui spesso venivano assegnate terre paludose e infestate dalla malaria.

A Pitigliano gli ebrei vissero ben inserendosi nella comunità locale, godettero di libertà altrove non concesse e sviluppare il commercio e l’artigianato. Nel 1571 fu autorizzata l’apertura di un banco di prestito e agli ebrei che vi lavorano fu concesso di non esibire il contrassegno di riconoscimento e il diritto di difesa. Nel 1598 fu eretta la sinagoga. Con l’annessione dei territori al Granducato di Toscana si eresse il ghetto, furono limitate le attività commerciali e gli ebrei furono costretti ad indossare il distintivo giallo. Si chiuse il banco di prestito e le condizioni economiche degli abitanti del ghetto lentamente peggiorarono. Tra il XVII e il XVIII secolo giunsero a Pitigliano anche gli ebrei in fuga da Castro, e di fatto quella di Pitigliano rimase la sola comunità ebraica della Maremma. Con l’avvento degli Asburgo Lorena, 1765, la comunità tornò a godere dei propri diritti e si realizzò il suo pieno inserimento in quella cristiana locale, tanto che furono proprio i cattolici ad impedire la distruzione del ghetto ad opera dei Viva Maria, truppe antifrancesi. Nel XIX secolo la comunità raggiunse la sua massima espansione: venne istituita una scuola per l’insegnamento ad ebrei e cristiani, una biblioteca e un istituto per l’assistenza agli ebrei poveri. Personaggi fondamentali per l’ebraismo italiano nacquero a Pitigliano: tra loro i fratelli Servi, fondatori della rivista Vessillo Israelitico, e Dante Lattes, fondatore della casa editrice con lo stesso nome, benemerita per la diffusione della cultura ebraica in Italia, e uno dei rappresentati di spicco del sionismo italiano.

La progressiva normalizazione della comunità ebraica pitiglianese fu probabilmente anche la causa della sua dispersione: si passa da 400 unità alle 70 del 1931, aggregate alla comunità ebraica di Livorno. Non risparmiarono nessuno le leggi razziali del ’38 e ad oggi gli ebrei rimasti a Pitigliano sono 5.

Ciò non ha impedito di procedere al recupero e alla valorizzazione dell’antico ghetto ebraico, oggi visitabile. Le stanze ad oggi aperte al pubblico sono il bagno rituale femminile, che probabilmente usufruiva delle acque curative  già sfruttate dagli etruschi e oggetto di culto, la cantina, il macello kasher, il forno degli azzimi, la tintoria, la cisterna, e non ultima la sinagoga. Costruita nel 1598, fu restaurata nel ‘700, nell’800 e nel 1931 la facciata è stata arricchita con stucchi rococò. Al momento della sua chiusura nel 1956 l’aron è stato trasferito nella sinagoga di Karmiel, in Israele.  Il restauro definitivo è stato fatto nel 1995 ad opera del Comune di Pitigliano e oggi vi si svolgono i riti.

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Della gestione del patrimonio ebraico si occupa l’Associazione Piccola Gerusalemme, insieme alla piccola mostra permanente sulla cultura ebraica. Ad oggi è attiva una raccolta fondi per il restauro del cimitero ebraico, che si trova sotto lo sperone di tufo del paese. Contiene circa 280 tombe. Un piccolo negozio all’entrata del ghetto vende prodotti kasher. Tra questi lo sopraddetto sfratto, tipico dolce di Pitigliano.

Sfratto. Ingredienti per 4 persone:
200 gr. di farina, 100 gr. di zucchero, una punta di sale, 1 dl. di vino bianco, 6 cucchiai di olio ExV, 4 chiodi di garofano, 150 gr. di miele di maremma, cannella, noce moscata, 200 gr di noci frantumate, semi d’anice, la scorza di una arancia a striscioline, vaniglia, un uovo.

Preparazione:
• Mezz’ora prima di preparare la sfoglia mettere il miele al fuoco basso e scaldare lentamente
• unire la buccia d’arancia, i semi d’anice, le noci, la cannella e la noce moscata.
• Preparare una sfoglia impastando farina, olio, vino, zucchero, vaniglia e il torlo di un uovo
• spianarla e ricavarne delle strisce sottili lunghe circa 25 cm larghe circa 6/7 cm.
• Riempire con l’impasto di miele etc… che nel mentre s’è raffreddato.
• Arrotolate le strisce, che risulteranno dei bastoncini (sfratti). Mettere gli sfratti in forno a 170 gradi per 15 minuti




Minime tracce di presenza ebraica rimangono a Sorano: la via del Ghetto, il frantoio, sui battenti delle porte d’ingresso dell’edificio che ospita la Locanda Aldobrandeschi, a fianco del quale esiste ancora un’antica struttura che veniva utilizzata per lo stoccaggio del grano dato a garanzia nel cosiddetto «prestito a grano». L’antica sinagoga è stata convertita in sala per rassegne culturali.


martedì 12 gennaio 2016

Venite con noi in Georgia!


Sto ancora preparando il viaggio in Armenia fra il 2 e 10 maggio, pubblicherò il percorso esatto e i costi (più o meno gli stessi del tour georgiano) il 20 febbraio. Tuttavia, visto che è adesso che i biglietti costano poco, quindi se siete già fermamente decisi di venire, compratelo subito. Tuttavia, scrivetemi prima, perché il pullman per la prima settimana è già quasi piena.
Dopo le quattro tours caucasiche dell’anno scorso invitiamo di nuovo i nostri lettori a Georgia. Ci andiamo a maggio, quando le montagne verdeggiano e gli alberi fioriscono, e il paesaggio georgiano di straordinaria bellezza è ancora più bello del solito. Partiamo il 9 maggio da Budapest con il volo low cost Wizzair a Kutaisi, e torniamo il 17 maggio all’alba. Fino allora c’è abbastanza tempo per i preparativi. Tuttavia annuncio il viaggio così presto perché è adesso che i biglietti aerei sono a buon mercato. Secondo le esperienze dell’anno scorso, il prezzo aumenterà rapidamente. Quindi se volete venire, scrivetemi fino a venerdì, il 15 gennaio a wang@studiolum.com, in modo che io possa vedere quanti siamo, possa dire un prezzo esatto, e chi viene sicuramente possa acquistare il biglietto.

Nel corso delle escursioni dell’anno scorso abbiamo girato tutto il paese, dalle montagne del nord-ovest della Svaneti alla regione vinicola orientale di Kakheti e i monasteri rupestri meridionali di Samtskhe. Quest’anno spendiamo meno tempo nell’autobus, e più nelle zone più belle del paese, in Svaneti e la strada militare georgiana, e prendiamo più tempo per esplorare Tbilisi. Visitiamo anche alcune regioni di fama e straordinaria bellezza per le quali non abbiamo avuto il tempo l’anno scorso: il monastero di Gergeti sotto la montagna confine settentrionale di Kazbegi, le funivie di Chiatura lasciate a noi dai tempi socialista, e l’eremo di Katskhi. Viaggiamo con pullmino moderno con aria condizionata, a Tbilisi e a Kutaisi soggiorniamo in hotel a quattro stelle, e in Svaneti e Kazbegi in pensioni familiari. Il costo previsto del viaggio è di circa 550 euro (albergo con prima colazione, e nelle pensioni anche cena tradizionale, bus e guida), che preciserò in questo fine settimana, nella conoscenza del numero definitivo dei partecipanti.

Per la preparazione si consiglia di leggere l’annuncio del tour dell’anno scorso e i nostri posts colletti sulla Georgia (che si aumenteranno fino al viaggio). Di seguito descriviamo l’itinerario e il programma dei sette giorni, in modo che coloro che si sono già registrati alla tour possano scrutinarlo nella poltrona, e quelli che non l’hanno ancora fatto, siano allettati a iscriversi ora.

Le carte possono essere ingrandite a schermo intero cliccando sul link «More options» nell’angolo in alto a sinistra. Abbiamo indicato solo le tappe più importanti, ma ci fermeremo anche in molti altri siti belle viste e siti storici. Se le mappe vi suggeriscono qualche idea, fatecela sapere.


Mze Shina: Shairebi. Musica popolare da Svaneti. Dall’album Ushba.


1. Da Kutaisi a Svaneti

Il nostro aereo arriva all’alba a Kutaisi. Per risparmiare tempo, partiamo subito a Svaneti, una delle regioni più arcaiche e più belle della Georgia. Avremo due ore in più per dormire nel pullmino, e per la mattina arriveremo nella valle dell’Inguri, vicino al bacini idrico più profondo dell’Europa, dove avremo la nostra prima colazione georgiana. Lungo la strada ci fermiamo anche altrove, alle chiese con affreschi medievali e in villaggi con secolari torri di guardia. Sulla tortuosa strada di montagna arriviamo nel pomeriggio al nostro alloggio a Mestia. Visitiamo il centro storico con le antiche torri residenziali, e il ricco museo etnografico locale. Tradizionale cena georgiana nella pensione familiare.




2. Nelle montagne di Svaneti: da Mestia a Ushguli

Escursione de un’intera giornata nelle montagne, all’insediamento più altamente situato dell’Europa (2100 m), a Ushguli, la terra delle torri residenziali medievali. Con il nostro minibus fuoristrada copriremo la distanza di 45 km in 3-4 ore, mentre si goderà un panorama mozzafiato. Passeggiata nelle tre parti del villaggio di Ushguli. Nel pomeriggio, sulla via del ritorno saliamo con funivia alla torre di vedetta sopra Mestia, da dove si gode di un panorama delle cime più alte del Caucaso. A Mestia, cena casalinga.




3-4. Da Mestia aTbilisi e una giornata a Tbilisi

La strada più lunga del nostro viaggio: in sette ore scendiamo dalle montagne alla valle del fiume Mtkvari/Kura, e lungo il fiume alla capitale. Lungo la strada ci fermiamo alcune volte per riposo e per la visita di alcuni monumenti, come la leggendaria fortezza di Surami, o il Museo di Stalin a Gori. Il nostro albergo a Tbilisi sarà nel centro storico, in modo che questa e la prossima sera si può esplorare la città anche da soli. Il prossimo giorno facciamo un giro nel centro storico, l’antico quartiere dei palazzo attorno alla chiesa di Metekhi, il quartiere musulmano con i bagni turchi e la moschea, l’antico quartiere armeno, la Kala, e sopra di essa, le chiese medievali del distretto di Betlemme. Di sera, cena tradizionale in un ottimo ristorante georgiano nel quartiere ebraico, dove inviterò di nuovo il gruppo folk composto da tre ragazze da Svaneti, il quale ci ha affascinato tanto l’anno scorso.




5-6. Da Mtskheta lungo la strada militare georgiana a Kazbegi e ritorno

Cominciamo la giornata nell’antica capitale georgiana, Mtskheta, nella vicinanza di Tbilisi, che è tuttora il centro della chiesa georgiana. Dopo la visita della cattedrale e la chiesa di Jvari (Santa Croce) – la prima chiesa cristiana della Georgia – in cima alla collina all’altra riva del fiume, intraprendiamo la vecchia strada militare georgiana che porta via serpentine mozzafiato attraverso il crinale del Caucaso Maggiore al confine con la Russia. A metà strada ci fermiamo al monastero-fortezza di Ananuri, uno dei monasteri più belli della Georgia, e in altri luoghi, tra cui il Passo di Jvari, con un affascinante panorama su entrambi i lati del Caucaso. Oltre il valico si scende ai piedi del monte Kazbegi, la vetta più alta in Georgia, dove pernottiamo. Il giorno dopo andiamo con fuoristrada al monasterio di Gergeti, l’unica chiesa della Georgia costruita prima del diluvio :) Sulla via del ritorno ci fermiamo alla chiesa di Sioni, attraversiamo di nuovo il Passo di Jvari, e per la sera torniamo a Tbilisi.




7. Da Tbilisi attraverso Chiatura e Katskhi a Kutaisi

La nostra ultima giornata in Georgia visitiamo due famosi monumenti che non facevano parte del programma dell’anno scorso: il canyon di Chiatura con la moltitudine di funivie che attraversano la città mineraria costruita ad esso, e il monasterio di Katskhi, con l’eremitaggio costruito in cima a un monolite alto quaranta metri. L’ultima tappa e l’incoronamento del nostro viaggio sarà il monastero reale di Gelati, uno dei più bei monasteri georgiani, il luogo di sepoltura dei re della Georgia. Questa notte dormiamo a Kutaisi, e all’alba si parte all’aeroporto.




lunedì 11 gennaio 2016

La strada per Katskhi


La strada deviando dalla strada principale di Tbilisi a Zestaponi verso Chiatura passa lungo il crinale delle colline che si innalzano tra i fiumi Buja e Kvirila. Dolci pendii su entrambi i lati, le strisce gialle-verdi e ruggine-marroni dei prati e campi umidi vaporano al sole dopo due giorni di pioggia.


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Dopo il bivio per Dilikauri, il profondo canyon del Kvirila appare all’improvviso sul lato destro. Al di là di essa, ripide colline, con piccoli borghi e chiese sui picchi, come in Umbria. E mentre la strada sale, il panorama della valle diventa sempre più drammatico.


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Prima di Katskhi, la strada va in giro attorno alla grande ansa del torrente Katskhura, che sfocia nel Kvirila. È come passare lungo il bordo di un cratere con un diametro di diversi chilometri, si può vedere l’intero da ogni punto di essa. All’inizio dell’ansa, un monumento vigila sulla valle, la tomba di un eroe caduto nella guerra dell’Osezia del Sud del 2008. I bicchieri rovesciati in un’ordinata fila sulla pietra e il tavolo improvvisato, saldato da rottami metallici, invitano a fermarsi, a bere alla sua memoria, e a cercare di scorgere in lontananza, intorno alla parte centrale del cratere, il Pilastro di Katskhi, che sta da solo davanti alle pareti calcaree del canyon.


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Il monolite calcare alto quaranta metri incuriosì l’immaginazione religiosa fin dall’inizio del cristianesimo in Georgia. Un oggetto particolarmente venerato dei cristiani georgiani è la Santa Colonna nella cattedrale di Mtskheta, scolpita da un albero miracoloso che era cresciuto sopra il manto di Cristo, e il Pilastro di Katskhi fu considerato come la sua controparte creata di pietra da Dio. Nel 10º secolo un eremo fu costruito sulla sommità, che è stato restaurato nel 1990. Fu allora che padre Maxim da Chiatura si trasferì lì, e vive da allora nell’eremo come un stilita moderno. Un piccolo monastero fu costruito ai piedi del pilastro, dove vivono ormai dieci-quindici monaci giovani.

Il pilastro appare prima quando si raggiunge il ponte del Katskhura. Giù, lungo il fiume, si vedono i resti di un trasformatore di una volta, con pecore che pascolano intorno ad esso. Qualche curve della strada ci portano più in alto, da dove una difficile strada sterrata conduce verso il monastero. Un ampio campo si apre tra le scogliere, con una vista ultraterrena del pilastro e della campagnia, al tempo dell’ora d’oro.


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Arriviamo al monastero poco prima il tempo di chiusura, gli ultimi visitatori russi si stanno fotografando davanti al pilastro. Noi siamo gli unici che ancora indugiano nel cortile. Più avanti, di fronte agli edifici di abitazione, un piccolo gruppo di monaci giovani sono seduti in un cerchio, insieme con Padre Maxim. Nel cerchio, un ragazzo di dieci anni, Rezo, sta suonando il panduri, il liuto georgiano a tre corde, mentre il sacerdote accanto a lui canta la melodia. Ci offrono una sedia e un bicchiere di vino. È il compleanno del prete del villaggio, che è salito per festeggiarlo insieme ai monaci. Ha anche portato cinque catechisti, giovani con la faccia chiara e l’occhio vivace. Il più giovane, il già citato Rezo suona molto bene il panduri, canti popolari georgiani, vecchie canzoni, musica pop contemporanea. Qualcuno alza il bicchiere, fa il brindisi con calma, poi il sacerdote lo reciproca. Anche se non è chiaro ciò che dice, dagli occhi scintillanti e le risate si capisce che sono impegnati in battute sagaci. La risposta è seguita da un canto, mentre i bicchieri si riempiscono.



Brindisi e canzone. Registrazione di Lloyd Dunn

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Alla luce del sole al tramonto, il vento forma fantastiche immagini di nuvole sopra il pilastro. Padre Maxim tocca dolcemente il braccio di Lloyd e punta verso il cielo, che veda, come è bello.


Brindisi e canzone. Registrazione di Lloyd Dunn

Il sole è già tramontato dietro le montagne, quando la celebrazione si conclude. Diciamo grazie per l’ospitalità, e secondo l’usanza degli uomini georgiani, ci abbracciamo e ci diamo un bacio sulla guancia. I monaci ci accompagnano alla porta. Vediamo le loro figure magre e nere fino a scomparire alla nostra vista alla prossima curva.



venerdì 8 gennaio 2016

Il «Martirio di Santo Abo» di Ioane Sabanisdze

La chiesa di Metekhi a Tbilisi, con la chiesa di Santo Abo al piedi del ponte, a sinistra

«Accogliete, amici di Cristo e devoti dei martiri, questa storia gioiosa del santo martire e guerriero di Cristo, [che narra] come egli fu incoronato da Cristo con onore e gloria.» [Shurgaia 2003: 231]

«Mese di gennaio, nel giorno settimo.» Con questa precisa indicazione temporale inizia il testo di Ioane Sabanisdze – abbiamo poche notizie sull’autore, forse un ecclesiastico o un laico, vissuto nel VIII e IX sec. –, redatto per desiderio del Katholikos Samoel di Kartli e dedicato al «Martirio di Abo, santo e beato martire di Cristo» (opera databile tra il 786 e il 790), precisando, «martirizzato per mano dei saraceni in Kartli, nella città di Tiflis, il 6 gennaio dell’anno 846» [in realtà 786, ndr] * La festa del santo martire Abo Tbileli (di Tbilisi, in georgiano აბო თბილელი), il santo protettore di Tbilisi si celebra l’8 gennaio, il giorno che segue il Natale ortodosso, come vuole la prassi liturgica, dove le feste del santi, non possono coincidere con le dodici feste del Signore, e vengono così posticipate. La chiesa al santo dedicata si trova ai piedi della fortezza di Metekhi, sulle rive del fiume Mt’k’vari, accanto al ponte di Avlabari.

L’abside della chiesa di Santo Abo


1. La Georgia cristiana

L’attuale posizione geografica della Georgia, che si estende quasi per intero tra il Piccolo Caucaso e il Grande Caucaso, ne ha da sempre fatto un vero e proprio corridoio, per innumerevoli strade ed incroci. Non una semplice terra di passaggio, ma qualcosa di più complesso. Una terra che ha da sempre assorbito, utilizzato, inventato e trasformato. Vicende storiche, politiche, sociali e religiose si sono alternate nei suoi territori. Si tratta quindi di una terra che ha fatto della relazione, dell’incontro e dell’interrelazione il proprio punto di forza.

All’epoca non esisteva l’entità politica georgiana nella sua veste attuale, come gli altri paesi limitrofi, ma le terre ed i luoghi che provengono dalle descrizioni rimasteci, collocano in maniera precisa, con la visione del tempo, posti e situazioni. Non una identità già data, ma un’identità continuamente rifondata e messa, continuamente riletta e ricostruita. Frutto appunto di una posizione geografica, ma non solo.

Cappella nel cortile della chiesa di Santo Abo, sulle rive del fiume Mt’k’vari

Senza dubbio, il cristianesimo, la Chiesa, assieme alla lingua e al suo alfabeto, hanno avuto, come adesso, il loro ruolo e una «responsabilità», nella costruzione dell’identità georgiana. La Chiesa georgiana, con le sue prerogative di autocefalia, è attraverso «la presa di coscienza del valore della propria Chiesa, nella visione di Ioane Sabanisdze, il primo passo verso l’acquisizione della coscienza nazionale, nutrita dalla fede cristiana». [2003: 131-32].

«Infatti non soltanto i greci [bizantini] poterono ottenere questa fede che è da Dio, ma anche noi, abitanti in questo lontano [paese], come testimonia il Signore e dice: ʻmolti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe’ (Mt 8,11). Ecco anche la Kartli ha la fede ed è chiamata la Madre dei Santi: alcuni [dei quali] vi abitavano, altri, invece, stranieri venuti tra noi da lontano e in epoche diverse, [Santi] rivelatisi come tali per opera di Gesù Cristo, nostro Signore, al quale è la gloria nei secoli dei secoli, amen.» [2003: 215]

Fine della vecchia storia, inizio di un nuovo corso per i georgiani di Kartli. E il martirio di Santo Abo sarà il fondamento di questo nuovo.

L’icona di Cristo davanti alla cappella di Santo Abo


2. La conquista araba

I secoli VII-VIII portano grandi sconvolgimenti politici e sociali per la Kartli e per tutto il Vicino Oriente. Crollano l’impero persiano e bizantino sotto i colpi degli arabi. Anche la Kartli, con le sue istituzioni, la sua chiesa e le sue chiese, venne coinvolta, a più riprese. Stessa sorte toccò all’Armenia. Prima gli arabi si limitarono a brevi scorrerie, negli anni 640-43, poi nell’VIII secolo consolidarono il loro dominio.

Nel 654 gli arabi, sotto la guida di ibn Maslamah, dopo aver sconfitto i bizantini di Mauriano, entrarono in Kartli. L’accordo di pace, il «Kitāb Ṣulḥ», ossia «contratto di riconciliazione».

«…i georgiani non avrebbero potuto mettersi sotto la protezione di āʿdaʿ Āllah, i «nemici di Dio». Gli arabi garantivano la libertà di culto, pur accogliendo, evidentemente, tutti i cristiani desiderosi di abbracciare l’islamismo. In altre parole i georgiani diventavano i ḏimmī, «protetti», membri di una società riconosciuta dallo Stato arabo.
Il patto conferma ancora una volta l’opinione secondo cui lo scopo principale del dinamico califfato non fu la conversione dei popoli all’islamismo, ma la conquista di nuove terre ed il dominio sugli infedeli. In questa prospettiva, la libertà religiosa aveva una forte rilevanza economica per ambedue le parti: per i cristiani a motivo del gravame fiscale e per gli arabi a motivo delle entrate fiscali che garantiva.» [2003: 97-99]


L’accordo durò un paio d’anni. Si susseguirono alterne vicende e altre numerosi invasioni da parte degli arabi e l’arrivo dei cazari contribuì a rendere ancor più complicata la situazione. I piccoli regni georgiani erano del tutto impossibilitati nel far fronte alla potenza araba.

Con l’arrivo degli ʿĀbbāsīdi, nel 750 la situazione per le popolazioni caucasiche e cristiane si aggravò ulteriormente e la dominazione si fece più dura. Iniziò la persecuzione dei cristiani:

«Venivano umiliati anche coloro che passavano all’islamismo: dovevano comportarsi nel modo prestabilito per evidenziare che, pur professando il Profeta, erano tuttavia i servi, i vinti, in quanto non appartenenti alla stirpe araba.»

L’emirato di Tiflis alla sua fondazione nel 750, e cento anni dopo. Putzger historischer Weltatlas, 2005. Dall’articolo «Emirat von Tiflis»



3. La conversione di Abo

La vicenda di Santo Abo si svolge esattamente in questo periodo. Siamo nella Kartli, più precisamente a Tiflis (Tbilisi), descritta dall’agiografo Ioane Sabanisdze. Epoca tragica, dalle cui macerie tuttavia, un’epifania.

«[…] I nostri dominatori, padroni in questo tempo (1Cor 2,6) […] in molti ci fecero traviare dalla via della verità facendoci così tradire il Vangelo di Cristo, [noi] che stiamo ai margini del mondo e che da oltre cinquecento anni [siamo] entrati nella fede tramite il santo battesimo della grazia. […]. [N]oialtri, che siamo [rimasti] fedeli, schiavizzat[i] con la violenza ed incatenati dalla miseria e dalla povertà […], siamo resi piccoli (Dn 3, 37) dalla paura e scossi come una canna da venti violenti; eppure per l’amore ed il timore di Cristo, camminando in modo consono alla [nostra] patria [tradizione], sopportando ogni sventura, non ci separiamo dal Figlio Unigenito di Dio. In un tale tempo apparve il santo martire con la sua grandezza.» [2003: 199-200]

La figura di santo Abo Tbileli, viene così tratteggiata da Ioane Sabanisdze:

«Egli nacque da figli di Abramo, [appartenenti] alla stirpe dei saraceni, figli di Ismaele. Non era quindi un seme straniero, e nemmeno era nato da una concubina, ma era del tutto arabo, di padre e di madre; i suoi genitori ed i fratelli vivevano nella città di Baghdād di Babilonia. Era giovane di diciotto, o forse diciassette anni.
Egli volle accompagnare il principe Nerse, diventando suo servitore. Aveva [pure] un mestiere: sapeva preparare bene gli unguenti ed era istruito nei libri dei saraceni, abramitici, figli di Ismaele nato da Agar.» [2003: 217-8]


Santo Abo con la spada, il simbolo del suo martirio. Miniatura del 18º secolo

La conversione del Santo Abo, come fu per Abramo, San Paolo e nella storia georgiana nelle figure di Santa Nino e di Re Mirian, scaturì da una chiamata diretta di Dio. Così, il desiderio di intraprendere il viaggio verso la Kartli, terra «Madre dei Santi», aderendosi al corteggio di Nerse, principe di Kartli, che dopo tre anni di cattività a Baghdad tornò nel suo paese, non fu una sua idea, ma indicazione di Dio.

«[…] Egli divenne amato per la sua virtù da tutto il popolo, imparò inoltre a leggere e a scrivere nella lingua georgiana, parlandola con facilità.
Quindi si mise a studiare con zelo le sacre scritture dell’Antico e Nuovo Testamento poiché il Signore lo rendeva sapiente. Diligentemente si recava nella santa Chiesa ad ascoltare le letture del santo Vangelo, quelle profetiche ed apostoliche leggeva e scrupolosamente interrogava i maestri della fede. Se qualcuno contestava [quegli insegnamenti], ciò diventava per lui occasione di maggiore approfondimento della propria conoscenza. Così si perfezionò nella dottrina che è donata da Cristo alla Santa Chiesa Cattolica. […]

A questo punto rinnegò la legge di Maometto e abbandonò il modo di pregare che aveva in patria, ed amò Cristo con tutto il suo cuore adeguandosi alle parole: ʻmi annunciarono il pensiero degli empi, che non era la tua legge’» (Sal 119, 85).

Icona moderna di Santo Abo

Dopo il battesimo, inizia un percorso che lo porta sino in Abcasia, un «cammino di tre mesi, viaggiando di giorno e di notte». Quando il principe d’Abcasia seppe che Abo era stato appena battezzato «egli e la sua gente ne gioirono assai» [2003: 223] Lui invece davanti agli abcasi ringrazia Dio per aver «trovato un paese pieno di fede in Cristo e dentro i suoi confini non si trovava alcun abitante senza fede» [2003: 224]

Il principe d’Abcasia offre al Santo di poter restare nel suo paese e non far ritorno a Tiflis, dove i saraceni lo potrebbero uccidere per la conversione al cristianesimo. Abo invece decide di tornare e dedicarsi alla predicazione:

«Allora non mi fermare, servo di Dio! […] Ora ti supplico, lasciami andare affinché il fatto che io sono cristiano sia apertamente comunicato a coloro che odiano Cristo […]: ʻné si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti’ (Mt 5, 15). ʻCosì risplenda la vostra luce davanti agli uomini’ (Mt 5, 16) Ed io ora perché dovrei nascondere la luce con cui il Cristo mi illuminò?» [2003: 203]

Il santo martire Abo Tbileli. Pubblicazione religiosa del 1899. In sfondo, la chiesa di Metekhi


4. Martirio di sant’Abo

Riportiamo ora ampie parti della traduzione in italiano operata dal Prof. Gaga Shurgaia, della terza parte del testo redatto da Ioane Sabanisdze completa (Martirio di Abo, edizione di Gaga Shurgaia in La spiritualità georgiana. Ioane Sabanisdze, Ed. Studium, Roma, 2003).

«Nel dominio di nostro Signore Gesù Cristo, nell’anno 846 della sua Passione e Resurrezione [nel 786], mentre sui cristiani regnava Costantino, figlio di Leone, nella grande città di Costantinopoli, e sui saraceni invece Mosé emiro al-muʿminīn, figlio di Mahdī, in Kartli era katholikos Samoel ed era principe reggente St’epanoz, figlio di Gurgen, mentre si erano compiuti 6389 anni dalla creazione, nel giorno sei del mese di gennaio, venerdì, festa della Teofania, siamo stati testimoni nella città di Tiflis del martirio e del combattimento glorioso del santo e beato martire Abo, che avvenne come [di] seguito [racconterò].
Prima che questo avvenisse, vennero ad arrestare il beato martire di Cristo e dopo averlo condotto dal giudice, che era l’emiro della città di Tiflis, lo gettarono nella prigione perché egli confessava il Cristo. Tuttavia, giorni dopo, St’epanoz, principe reggente di Kartli, intercedette per lui, facendolo rilasciare dalla prigione.»


I suoi avversari però si recano dal nuovo emiro che era arrivato poco prima a Tiflis:

«Gli dissero: «In questa città c’è un giovane saraceno, nato, cresciuto ed istruito nella fede che ci diede Maometto, nostro apostolo. Egli ora ignora la nostra fede e dichiarandosi cristiano gira liberamente nella città senza alcun timore, iniziando molti di noi al cristianesimo. Ordina allora di arrestarlo, di condurlo al castigo ed alle torture finché non professi la fede di Maometto, nostro apostolo; e se non [lo farà] sia ucciso, affinché non si moltiplichino quelli che lo imitano grazie alle sue parole».

Durante le invasioni musulmane, le icone e i tesori delle chiese della Georgia si salvarono nella valle inaccessibile della Svanetia, le cui piccole chiese medievali perciò nel corso dei secoli accumularono incredibili tesori. Queste icone sono dalle chiese di Ushguli. Sopra: La Madonna con Gesù e Santa Barbara, 9º secolo

L’emiro lo chiama davanti a lui, cercando di convincerlo ad abbandonare la sua fede. Abo invece definisce l’islam come: «creata dagli uomini, fatta di credenze, la cui saggezza viene dalle fiabe», e rimane fedele al cristianesimo.

«Mentre così lo accusavano, furono sentiti da alcuni cristiani che subito vennero da sant’Abo e gli dissero: «Ecco, ti stanno cercando per arrestarti, per castigarti e torturarti». E [cercavano di] convincerlo affinché si ritirasse e si nascondesse. Egli invece rispose loro: «Io sono pronto non soltanto alle torture, ma anche alla morte per Cristo». Ed uscì felice, girando per i quartieri [della città] senza alcuna paura. Vennero allora alcuni servi del giudice, catturarono il beato Abo e lo condussero al giudice.
Il giudice gli disse: «Che cosa sento dire di te? Saresti saraceno per generazione e stirpe ed avresti ora abbandonato la fede dei padri, facendoti traviare dai cristiani? Adesso [ritorna in te stesso] e prega nella fede in cui ti hanno educato i tuoi genitori!».
Il beato Abo invece, pieno della potenza di Cristo, così rispose al giudice emiro: «Hai detto bene, infatti sono saraceno di sangue, [generato saraceno] dal padre e dalla madre, fui [davvero] istruito nella fede di Maometto ed in essa sono vissuto fino a quando sono rimasto nell’ignoranza. Quando Dio si compiacque di me – scegliendomi tra fratelli e parenti e salvandomi per mezzo di Gesù Cristo, suo Figlio e mio Dio – e mi fece conoscere il bene, allora abbandonai quella fede che avevo prima, fede creata dagli uomini, fatta di credenze la cui saggezza viene dalle fiabe, iniziandomi invece alla vera fede della Santa Trinità donata da Gesù Cristo e nella quale sono battezzato. Adesso adoro Lui solo, perché Lui solo è Dio vero. Ora sono cristiano e non è una calunnia quello che dicono di me».
Gli disse il giudice: «Lascia codesta idea folle. E se ti fossi fatto cristiano a causa della tua povertà, ebbene io ti darò subito ancor più doni e ricchezze».
Gli disse il beato Abo: «L’oro e l’argento rimangano con te per la tua rovina! Io non cerco doni dagli uomini, poiché possiedo il dono di Cristo che è la corona della vita e della immarcescibile ricchezza eterna nei cieli».
Allora il giudice ordinò di legarlo mani e piedi con catene di ferro e in tal modo chiuderlo in prigione.
Ma il beato [Abo] ne era gioioso, ringraziava Dio e diceva: «Ti ringrazio, o Signore nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo, poiché mi hai ritenuto degno di essere giudicato e fatto prigioniero per il tuo santo nome».
Questo accadeva nel [giorno] ventisette del mese di dicembre, martedì, giorno della commemorazione dell’apostolo di Cristo, santo Stefano protodiacono, protomartire e principe di tutti i martiri.»

Icona dei quaranta martiri di Sebaste, 12º secolo

Le date hanno un potere simbolico nel martirio. Come Abo fu imprigionato il 27 dicembre, il giorno di Santo Stefano, il primo martire, così sarà martirizzato al fiume Mt’k’vari il 6 gennaio, lo stesso giorno in cui Gesù fu battezzato nel Giordano.

Nel frattempo il beato Abo era in prigione, dove digiunava e pregava salmodiando ininterrottamente giorno e notte, [riuscendo pure a] compiere opere di bene: aveva infatti venduto tutto ciò che possedeva, offrendo il ricavato a nutrimento degli affamati e dei poveri che erano incarcerati insieme a lui. […] Il beato era nella prigione da nove giorni, [trascorso] digiunando di giorno in giorno e vegliando di notte fino allo spuntare dell’alba, allorché nel nono giorno annunciò a tutti coloro che erano reclusi con lui, cristiani e non cristiani: «Domani avverrà che io lascerò questa mia carne (Fil 1, 23) e raggiungerò il mio Signore e Dio, Gesù Cristo». Disse ciò poiché Dio glielo aveva rivelato.

Allora si privò dei suoi vestiti, affinché li vendessero per comprare ceri e incenso, che fece poi donare a tutte le chiese della città perché li accendessero. Supplicò poi i sacerdoti di pregare per lui, affinché non gli mancasse la fede in Cristo e potesse dunque essere degno di meritare il martirio per Lui. Egli stesso, invece, nella notte della santa festa, prese in mano due grandi candele e ponendosi in piedi in mezzo alla prigione, rimase fermo, vegliando e senza sedersi mai fino all’alba, allorché terminò di recitare i salmi. Le candele bruciarono nelle sue mani, che erano incatenate col ferro insieme al collo, ed egli, stando in piedi, senza muoversi, diceva: «Pongo sempre innanzi a me il Signore, sia alla mia destra, perché io non vacilli» (Sal 16, 8), e le parole che seguono.

Appena spuntò il decimo giorno, la festa del battesimo del Salvatore, ossia il sei del mese di gennaio, che cadde di venerdì, il beato disse: «Questo è per me un grande giorno, poiché vedo la duplice vittoria del mio Signore, Gesù Cristo. Innanzitutto in questo giorno miracoloso Egli, depose le vesti, scese nel fiume Giordano per essere battezzato e con la sua potenza divina schiacciò le teste dei draghi nascosti nella profondità delle acque (Sal 74, 13-14). Così è lecito anche a me abbandonare ogni preoccupazione per la carne, che è la veste della mia anima, e immergermi in questa città come se mi trovassi nel’abisso del mare, ed essere battezzato con il mio stesso sangue, con il fuoco e con lo Spirito – come predicò Giovanni il Precursore (Mt 3, 11; Lc 3, 16). Mi immergerò nelle acque e acquisterò la luce perché oggi è il giorno della discesa dello Spirito Santo sulle acque del fiume Giordano, in cui vengono battezzati i fedeli di Cristo.»

Deesis, 13º secolo

Anche la sua condanna davanti al giudice e il suo martirio segue le stazioni di Cristo:

«Allora chiese dell’acqua, si lavò la faccia, si unse i capo e disse: «Una volta io stesso preparavo gli unguenti, e sapevo predisporre con perizia varie specie di olio profumato; ed oggi l’olio mi serve per la sepoltura. D’ora in poi non mi ungerò più con l’olio che disperde i cattivi odori, ma come imparai dal saggio Salomone nel Cantico dei cantici: correrò a te inebriato dalla fragranza dei tuoi profumi (Ct 1, 3). Cristo, che mi riempisti con l’indistruttibile profumo della tua fede e del tuo amore, tu sai, Signore, che ti ho amato più di me stesso».
Avendo detto queste cose, inviò qualcuno alla santa Chiesa perché gli fosse portato il santo sacramento, la carne ed il sangue di Cristo – era l’ora terza del giorno della grande festa.

Lo condussero fuori così com’era: con le mani e i piedi incatenati con i ferri; e mentre lo conducevano per le strade della città i cristiani e coloro che lo conoscevano, vedendolo, addolorati versavano lacrime su di lui. Ma il santo Abo invece disse loro: «Non piangete per me ma invece gioite, poiché io sto per andare dal mio Signore. Accompagnatemi con le preghiere e la pace del Signore vi difenderà».

Così raggiunse la corte dell’emiro giudice. Appena arrivato, con audacia fece il segno della croce alla porta e su se stesso. Lo condussero dinanzi al giudice, che gli si rivolse così: «Allora, giovane, che cosa hai pensato di fare di te stesso?»
Il santo martire allora si riempì di Spirito Santo e gli rispose: «Ho pensato, sono cristiano!»
Disse il giudice: «Allora, non hai lasciato la tua pazzia e la tua ignoranza?»
Il beato Abo gli rispose: «Se fossi stato nell’ignoranza e nella stoltezza, non sarei stato degno di seguire Cristo».
Gli fece il giudice: «Non hai capito che codeste tue parole saranno causa della tua morte?»
Gli rispose sant’Abo: «Se morirò, io credo che vivrò in Cristo. Ma tu piuttosto, perché indugi? Fammi ciò che hai intenzione di fare, poiché io, come il muro al quale sei appoggiato, non sento codeste tue parole malvagie, dal momento che la mia mente è con Cristo nel cielo.»
Gli domandò il giudice: «Quali e quanto grandi dolcezze hai avuto dal tuo Cristo che non ha compassione neanche di te stesso sul punto di morire?»
Gli disse sant’Abo: «Se vuoi conoscere la Sua dolcezza, credi il Lui, fatti battezzare in Lui. Soltanto allora conoscerai la Sua dolcezza».

A questo punto l’emiro si adirò ed ordinò di condurlo fuori e di tagliargli la testa. I servi lo condussero fuori, nel cortile del palazzo, e gli tolsero i ferri dai piedi e dalle mani. Il beato si levò rapidamente le vesti che indossava, e una volta svestito si fece il segno della croce sulla faccia e sul petto, dicendo: «Ti rendo grazie e ti benedico, Santa Trinità, per avermi reso degno di entrare nel novero dei tuoi santi martiri!»
Detti questo intrecciò le mani dietro la schiena, come se fosse[ro le braccia del]la croce, e, con il volto illuminato di gioia e l’animo audace, invocò Cristo, chinando il capo dinanzi alla spada. Per tre volte brandirono la spada, sperando di separarlo da Cristo con il terrore della morte. Ma il santo martire invece sogguardando calmo e silenzioso la spada, affidava il suo spirito a Cristo.»


Icona d’oro del Salvatore, 11º secolo

Come gli ebrei chiesero soldati a Pilato per custodire il corpo di Cristo, che i suoi discepoli non lo portassero via e diffondessero la notizia della sua resurrezione, così i musulmani chiesero all’emiro che il corpo di santo Abo venisse bruciato, perché non diventasse una reliquia da poter venerare per i cristiani. Le ceneri verranno disperse nel fiume.

Quando coloro che combattevano Cristo, gli accusatori del santo martire, ebbero visto che il beato era [morto] fermamente unito a Cristo, avendo combattuto la buona battaglia ed avendo sconfitto con la fede e la pazienza il loro vaneggiamento, presi ancor di più dal livore, andarono dal tiranno e gli dissero: «Noi sappiamo che è costume dei cristiani fare questo: se qualcuno si fa uccidere per il loro Cristo rapiscono il suo corpo, lo seppelliscono con venerazione e [poi] con la menzogna vogliono far credere al miracolo, diffondendo nel popolo la notizia [che il corpo è] capace di operare guarigioni, e così dividono tra di loro le sue vesti, i capelli della sua testa o le ossa. […] Ordina perciò che ci venga consegnato il suo corpo, affinché lo prendiamo per poterlo bruciare col fuoco e disperdere al vento [le ceneri], eliminando così l’inganno dei cristiani. E così tutti, vedendo questo, siano presi dalla paura, e magari alcuni di loro si convertano a noi e d’altro canto i nostri abbiano sempre paura e non seguano più l’insegnamento dei cristiani».
A questo punto, il giudice disse: «Portatelo dove volete e fatene ciò che volete!»
Allora uscirono, sollevarono da terra il suo corpo prezioso e lo posero assieme ai suoi vestiti dentro un sacco, poi presero pure la terra col sangue versato dal giusto, raccogliendola in un recipiente così da non lasciare nulla. Posero il [corpo del] santo su un carro, come avvenne per quaranta audaci santi, anche perché il luogo dove tagliarono la testa al santo martire si trovava vicino alla porta della santa chiesa dedicata ai quaranta santi, ed era giusto che lui seguisse la stessa sorte dei famosi quaranta santi.
Portarono il corpo del santo fuori della città e salirono a un luogo che si chiama sagodebeli, [ossia luogo della trenodia] poiché vi è il cimitero degli abitanti della città. Arrivati, levarono il cadavere dal carro e lo posero sulla terra. Posero poi del legname, della paglia e della nafta, ne versarono sul santo ed accesero il fuoco fino a che non bruciarono le carni del santo martire.
Questo avvenne in un luogo che si trova ad est della fortezza [che domina] la città di nome sadilego [ossia della prigione]; su una rupe, lungo la quale, ad est della città, scorre un grande fiume di nome Mt’k’vari.

A nessun cristiano permisero di raggiungere quel luogo finché non fossero completamente bruciate le carni del santo martire, e le ossa – non riuscendo a bruciarle – furono raccolte dentro una pelle di pecora che fu chiusa saldamente coi lacci e gettata nel grande fiume sotto il ponte della città, sul quale è eretta una preziosa croce. E l’acqua del fiume accolse in sé le sue sante ossa come in una veste, e l’abisso del fiume fu sepolcro al santo martire, affinché nessuno potesse avvicinarglisi con irriverenza.


Icona dell’Arcangelo Michele, 13º secolo

Tuttavia, nella notte una stella brilla sopra il luogo del martirio, come la notte successiva sopra il luogo, dove il fiume abbracciò le ceneri del santo:

Quando calò la notte su quei luoghi – era l’ora prima di notte – Dio fece discendere una stella, brillante come una lampada di fuoco, che stette ferma sopra il luogo dove avevano bruciato il [corpo del] beato martire di Cristo. E la stella stette lì in alto fino all’ora terza ed oltre di notte, emanando uno splendore non come fuoco di questa terra, ma come tremenda saetta di fulmine.
Tutti gli abitanti videro ciò: dal giudice al popolo tutto, cristiani, saraceni e viandanti venuti da fuori.

La notte seguente le acque [del fiume] irradiarono una luce stupefacente, ancora più luminosa. [Mentre alcuni] avevano considerato il fuoco celeste, che stava sospeso tra la terra e l’aria, un miraggio, volendo [così] misconoscere quella meraviglia; [ora invece tutti vedevano che] le acque non riuscivano a spegnere [quella luce], neppure i numerosi gorghi violenti nella profondità dell’abisso riuscivano ad estinguerla.
Dove avevano gettato le ossa del beato martire, santificate da Dio, sotto il ponte, là apparve una luce splendida con forma di colonna, simili a fulmini che stanno fermi. [Di questa luce] erano illuminati i dintorni del fiume: la rocca, il precipizio ed il ponte, dalla terra al cielo. [Tutto ciò fu] alla vista di tutta la moltitudine della città, affinché tutti credessero che egli era veramente martire di Gesù Cristo, Figlio di Dio, [affinché] capissero tutti, credenti in Cristo e non credenti, quanto sia vera la parola detta dal Signore: «Se uno mi serve sarà onorato dal Padre mio che è nei cieli» (Gv 12, 26)


Qui, ai piedi della roccia Metekhi fu costruita la piccola chiesa, dove i cristiani georgiani venerano la memoria di Santo Abo da milleduecento anni. La cappella, che fu distrutta dalle autorità sovietiche negli anni ’50, oggi si vede nella forma ricostruita, risalente agli anni ’90.

La piccola chiesa di Santo Abo sotto la rocca di Metekhi a sinistra, al piede del ponte, sulla veduta di N. G. Černetsov (1832). All’altro piede del ponte, la moschea sciita. Di tutti questi edifici quasi niente è rimasto dopo la distruzione degli anni ’50.